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foto di: Cybernaua archivio
Afghanistan, un rebus politico-giuridico…

Ma anche e soprattutto morale e ideologico la cui attuale situazione è inaccettabile
14-08-2024 - L’attuale situazione dell’Afghanistan è inaccettabile sotto il profilo morale, è triste sotto il profilo sociale, è deludente sotto il profilo politico. L’Afghanistan è stato dimenticato dall’Occidente già prima che scoppiasse una nuova guerra nel cuore dell’Europa, e questa noncuranza evidenzia uno strisciante senso di colpa, ma non giustifica l’abbandono di un intero popolo alla follia oscurantista dei talebani. Cosa resta dopo la disillusione di venti anni spesi a cercare invano di rendere l’Afghanistan un Paese migliore?

Quello che proviamo a delineare qui è un insieme di riflessioni attorno al “caso Afghanistan”, ovvero quella situazione particolare venutasi a creare in quel paese dopo i decenni di guerra che si sono succeduti a partire dall’invasione russa del 24 febbraio 1979 fino al repentino abbandono degli Stati Uniti del 14 agosto 2021 quando i talebani sono tornati a Kabul.
La situazione dell’Afghanistan di oggi, anno 2023, è ciò che resta dopo oltre quarant’anni di travaglio e di realtà interne diametralmente opposte dovute ai dieci anni della guerra di invasione russa prima, al governo dell’organizzazione militare dei talebani poi, e da altri venti anni di occupazione del contingente militare internazionale, che avrebbe dovuto destituire il regime talebano, debellare il terrorismo e sconfiggere al-Qaeda, e costruire le basi sociali e organizzative di un nuovo Afghanistan. Questo non si è verificato, anzi, tutto pare vanificato dal ritorno al potere di un’organizzazione militare, quella dei talebani, che se venti anni prima appariva come “il movimento di liberazione” si è rivelato un “movimento di occupazione”. Questi sofferti quarant’anni hanno molte cause ma certamente hanno privato l’Afghanistan e il suo popolo della più elementare libertà di gestione autonoma della propria quotidianità. A conclusione di questi drammatici decenni, complicati dalla guerra civile interna e dalla presenza di diverse etnie, da sempre alla base di continui conflitti interni, la situazione non è affatto migliore. Anzi. Fra crisi economica, frontiere praticamente chiuse, privazione di molta parte della popolazione, donne in primis, degli elementari diritti civili, la situazione appare estremamente dura e drammatica. Se ci aggiungiamo il recente terremoto dell’ottobre 2023, la situazione generale è ancor più complicata.
Ma nelle poche pagine che seguono, non intendiamo ricercare alcuna ragione di ciò che è stato né capirne o giustificarne il perché. Né potremmo mai trattare in così poche pagine tutte le questioni che si intersecano sul palcoscenico dell’Afghanistan dalla fine degli anni Settanta ad oggi. Ci preme sottolineare alcuni elementi di maggiore evidenza per tentare di proporre qualche nuovo punto di vista per futuri cambiamenti della situazione. Un’operazione alquanto ardua se prendiamo atto che venti anni di presenza “occidentale” in Afghanistan erano partiti con buoni propositi, ma in definitiva non hanno prodotto significativi passi avanti.
Quello che richiede una riflessione non è l’ennesima analisi di ciò che è stato ma l’ipotesi di ciò che sarà o che potrebbe essere in futuro, partendo da un quadro della situazione che non è difficile definire piuttosto “anomalo”. Nello specifico, non analizziamo gli eventi, ci limitiamo a prendere atto dei risultati attuali e della situazione che si è venuta a creare per individuare gli eventuali argomenti che possano essere oggetto di ulteriore approfondimento, costituire gli elementi di un negoziato, o rappresentare nuove opzioni di sviluppo di qualsiasi approccio con l’attuale governo talebano o una futura trattativa con esso. Siamo infatti convinti che da una parte la “storia” sia stata già ampiamente sconfitta, intendendo con essa tutto ciò che è avvenuto negli ultimi quarant’anni, fino agli accordi di Doha del 2020, e siano dunque le nuove prospettive e i nuovi punti di vista a dover essere messi sul tavolo.
Ma va tenuta presente una condizione imprescindibile: tutto ciò che possiamo affermare circa la situazione dell’Afghanistan ha un valore e un significato per noi occidentali, poiché la presunta “controparte”, i talebani – e probabilmente anche una gran parte della popolazione afghana – evidentemente non la pensa allo stesso modo sulla maggior parte dei temi che definiscono la questione. La religione, qualunque essa sia, è popolare e inclusiva ma se si è costretti a imporla con la violenza significa che qualcosa non funziona.

1. Il caso di un Paese ostaggio dei terroristi
Le Nazioni Unite non riconoscono il governo talebano come entità statale e lo considerano come membri dell’Emirato islamico afghano. Si può discutere sulla definizione dei talebani, perché essi sono un gruppo di persone che ha assunto ruoli diversi in momenti diversi della recente storia afghana. Impostisi all’attenzione della stessa popolazione afghana quasi come dei “paladini della libertà nazionale” all’indomani del crollo del regime filo-sovietico, la loro ascesa è stata prima supportata da gran parte della popolazione, soprattutto rurale, per poi essere esautorati dalla coalizione internazionale quando governavano solo una parte del Paese, fino a tornare al potere, questa volta in maniera definitiva, nell’agosto 2021.
La questione della loro identità è un primo aspetto determinante dell’intera questione; identità che non appare la stessa dal tempo della loro comparsa sulla scena al ruolo che hanno assunto oggi che sono al potere dell’intero Paese. Siamo infatti solo noi occidentali a considerarli un gruppo armato violento, antidemocratico e addirittura terroristico o anche la popolazione afghana li considera come tali?
Ai nostri occhi, non vi è dubbio che l’intransigenza con la quale i talebani stanno interpretando e mettendo in pratica la Sharia ha connotati dittatoriali e degni di un regime del terrore. Ma come accogliere il fatto che abbiano indubbiamente avuto il supporto della popolazione fino a qualche tempo fa?

2. Riconoscimento giuridico dell’Afghanistan
Una questione fondamentale è quella del “riconoscimento dell’Afghanistan” a livello giuridico internazionale. La dottrina giuridica ci dice che a livello internazionale il “riconoscimento” riguarda uno Stato in quanto entità formata da un territorio, un popolo e una nazione. Resta quindi discutibile se il riconoscimento abbia a che fare con la sua forma giuridica o politica, dato che vige contemporaneamente il principio di autodeterminazione.
Ricordiamo che la prassi indica nel riconoscimento un atto politico unilaterale con il quale uno Stato attribuisce la condizione di soggetto di diritto internazionale a un altro organismo statale. Ma il riconoscimento può aversi un due modalità: quella del riconoscimento diretto e formale da parte della comunità internazionale (almeno una parte), come nel caso del Kosovo. In tal caso il riconoscimento da parte di altri Stati va a costituire di fatto la nuova entità statuale (ad. es.: il caso di uno Stato nato da un trattato di pace). L’altro tipo di riconoscimento avviene in forma dichiarativa: ovvero uno Stato non avrebbe necessità di alcun consenso da parte degli altri Stati, ma deriverebbe dalla situazione di fatto e dalle azioni che dimostrano il controllo effettivo sul territorio e sulla popolazione. Questa seconda modalità è tendenzialmente “preferita”, ma è altrettanto evidente che la valutazione circa la sua “validità” non è giuridica ma politica. Che uno Stato abbia il pieno diritto di dichiararsi tale, a prescindere dal consenso internazionale afferisce al principio di autodeterminazione. Che gli altri Stati non riconoscano l’entità Statuale venutasi a creare rappresenta un mero giudizio o parere politico, circa la convenienza o meno di avere relazioni con tale Stato.
La situazione nella quale si trova l’Afghanistan è appunto questa, quella dell’opportunismo politico da parte degli Stati terzi. E qui, a mio parere, si ha già una netta contrapposizione fra diritto e opportunità politica, poiché la storia del Novecento, e in gran parte anche l’attuale, ci dice che l’esistenza di uno Stato può essere “conveniente” per altri Stati a prescindere dalla liceità della sua nascita o formazione. Nel contempo, uno Stato legalmente sorto può non avere relazioni internazionali con Stati che ne neghino l’esistenza per motivi di contrapposizione politica con il suo governo e le sue istituzioni.
Ma allora, il riconoscimento ha relazione con lo Stato in quanto Nazione o con lo Stato in quanto Governo? Che succede di fronte ad un nuovo governo? Ovviamente niente. La vita politica interna di ciascuno Stato non è soggetta ad alcun giudizio o approvazione esterna. Ma è evidente che il determinarsi della supremazia di un fronte politico piuttosto di un altro abbia sempre portato con sé la simpatia o l’antipatia di altri paesi, quanto meno di quelli confinanti.
Da quanto detto, deriva che il rifiuto di riconoscimento da parte della comunità internazionale non determina una negazione dei diritti o degli obblighi internazionali degli Stati non riconosciuti. E qui si palesa una seconda possibile contraddizione. La costituzione di un nuovo Stato, il mutamento di alcune sue caratteristiche fondamentali (il nome, ad esempio, come accaduto per la Rhodesia del Sud diventata Zimbabwe, o Ceylon divenuto Sri Lanka), non determinano il decadere degli obblighi internazionali di quello Stato verso la comunità internazionale. E vedremo più avanti che certi obblighi potrebbero afferire anche ai “valori “morali”. Perché nel caso dell’odierno Afghanistan abbiamo una situazione che non può restare un mero fatto di politica interna poiché, chiamando in causa i diritti civili e le libertà individuali dell’uomo, dovrebbe interessare l’intera comunità internazionale.
Come accennato sopra, va ricordato che i talebani, sono un’organizzazione politica e militare di ideologia islamica, sono nati per combattere il governo filo-russo e hanno governato una buona parte del territorio afghano (escluse le zone settentrionali e occidentali) dal 1996 al 2001 e furono riconosciuti da tre Stati: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Pakistan. Ma non possiamo non osservare che i talebani adottino valori e princìpi che sono contrari al comune sentire nel resto del mondo. Questo determina la comparsa di un altro parametro, quello della morale e dei princìpi morali, certamente non prevalente in un ragionamento meramente giuridico, ma che col diritto ha comunque a che fare.
Il diritto internazionale e la morale sono due concetti distinti, ma spesso interconnessi. Se il diritto internazionale regola le relazioni tra gli Stati, la morale si riferisce ai princìpi etici e ai valori che guidano il comportamento umano. Sebbene il diritto internazionale, in quanto insieme di regole giuridiche, non sia basato sulla morale, ci sono molti ambiti nei quali la morale e il diritto si incontrano. Sappiamo che il diritto internazionale vieta la tortura, la schiavitù e il genocidio, considerati appunto come atti immorali.
Richiamando dunque quanto detto sopra, la comunità internazionale può dunque ritenere di non dover riconoscere uno Stato, o una sua nuova forma giuridica, non già solo in base a opportunità politica ma anche sulla base di atti e azioni che siano contrarie ai princìpi morali storicamente affermati. Non vi sono dubbi che lo stallo delle relazioni internazionali nei confronti dell’Afghanistan abbia alla base queste motivazioni.
A questo ragionamento, aggiungiamo una ulteriore categoria: quella del consenso sociale. Ovvero, il consenso che la forza, il movimento o il partito politico al potere possa avere all’interno del Paese. Va da sé che quando qualunque parte politica è eletta dal popolo, per libere elezioni o per acclamazione popolare, si palesi la piena applicazione del diritto di autodeterminazione di quel popolo a dotarsi della forma stuatuale preferita. Ma quando quella parte che è al potere vi è arrivata per un Colpo di Stato o per una guerra civile, o peggio, per violenza e sopruso, siamo o non siamo in presenza del principio di autodeterminazione? In altri termini, quando al potere vi è una minoranza nella quale il popolo non si riconosce, ma che anzi, è addirittura priva del consenso del popolo, di fronte a quale forma di governo siamo?
Va osservato che i talebani possono essere interpretati in due modi diversi: come veri difensori dell’identità nazionale, quando sono stati appoggiati dal popolo e dai contadini in particolare, come coloro che combattevano contro l’invasore russo. Oggi al potere si rivelano gli oppressori delle donne e dei loro diritti civili. Un’ambiguità che si desume da molti altri comportamenti assunti negli ultimi decenni. Quando ad esempio proibirono la produzione dell’oppio alla fine del 1997 – l’Afghanistan è sempre stato il principale produttore mondiale di papavero da oppio – ma poi, in seguito ne promossero la coltivazione per poter finanziare l’acquisto di armi e le operazioni militari. Oppure quando i talebani promossero il restauro dei Buddha di Bamyan ma anni dopo ne ordinarono la distruzione nel 2001.
Il consenso sociale dei talebani offre tuttora molti lati oscuri circa la legittimità di cui godono in patria, ma senza dubbio, almeno in Occidente, è unanime il riconoscimento delle loro severe limitazioni delle libertà civili e delle violazioni dei più elementari diritti delle donne.
Il fatto che la Cina abbia nominato il nuovo ambasciatore, Zhao Sheng, presso il governo dei talebani nel settembre 2023 conferma quanto l’opportunismo politico ed economico venga prima di qualsiasi valore culturale e morale e dunque prevalga rispetto al valore della semplice decenza della vita umana. Potremmo osservare che la smemoratezza rispetto alle battaglie culturali degli ultimi tre secoli e ai diritti conquistati sia anch’essa aleatoria all’interno della comunità internazionale. Ma abbiamo detto che non entriamo nelle motivazioni e nelle giustificazioni e abbiamo ricordato che ciò che scriviamo ha un senso e un valore per noi europei od occidentali. Ci interessano sempre e comunque le possibili pedine da giocare su un tavolo di negoziato.

3. Ci sono casi analoghi all’Afghanistan nella storia?
La storia ci offre casi di organizzazioni terroristiche che hanno “conquistato” e “tenuto in ostaggio” parti del territorio di una nazione, ma non vi sono casi di “terroristi” al potere. Evidentemente tale affermazione contiene un paradosso, poiché se il terrorismo, in qualunque sua forma, è dichiaratamente illecito e illegale, ed è perseguito dalla legge, questo non potrebbe – o non dovrebbe – mai trovarsi al potere. Ma è semmai discutibile la distinzione che corre fra un “esercito di liberazione” o un fronte popolare”, e quella di un’organizzazione terroristica. Sono distinzioni nette. Ma nessun “esercito di liberazione” si autodefinirà mai un’organizzazione terroristica. Ma non è detto che non lo siano. Quando una fazione militare si costituisce non solo come forza di liberazione ma compie azioni che travalicano la semplice “restaurazione” del potere statuale dell’identità nazionale ed applica mezzi e metodi, con l’uso della forza e anche del terrore, che sono contrari allo stesso proprio popolo, a parti di esso, o a categorie di esso, come lo vogliamo definire se non un’organizzazione terroristica? Questa occasione, va osservato, si configura a prescindere da qualunque colore politico, ideologia o religione, poiché è meramente un fatto determinato dal comportamento adottato.
Abbiamo citato che sia già accaduto in Afghanistan fra il 1989 e il 2001 che i talebani abbiano governato parte del Paese, ma non si può dire che in quel periodo l’Afghanistan fosse in pace, o che fosse pienamente capace di autodeterminarsi. La situazione vissuta dal Paese dal 1979 e fino ad oggi non si potrebbe definire come quella di un Paese libero, autosufficiente, e in grado di decidere liberamente del proprio destino.
Aggiungiamo che i talebani sono identificati a livello internazionale come un’organizzazione militare afghana, a ideologia fondamentalista islamica, presente in Afghanistan e in Pakistan. La loro ideologia si basa su una visione estremista dell’Islam che prevede l’applicazione rigorosa della Sharia. Tuttavia la loro applicazione della Sharia è stata criticata da molti musulmani moderati che ritengono che le azioni dei talebani siano contrarie ai princìpi dell’Islam. Se ciò è vero, siamo di fronte ad un sillogismo: a) I talebani rivendicano il potere come organizzazione militare e islamica di liberazione dell’Afghanistan; b) I talebani adottano princìpi e azioni che sono considerati contrari ai princìpi della maggioranza dell’Islam; c) I talebani sono illegittimamente al potere perché contrari all’Islam, e quindi anche all’Afghanistan. Ma qualcuno ha mai fatto valere questo sillogismo?
Parrebbe dunque evidente che il confine fra il principio di autodeterminazione, e la stessa legittimità della scelta della propria forma di governo interna, non si possa lasciare all’interno della libera scelta di un popolo o di una nazione verso l’uno o l’altro governo, perché appunto non è una questione politica, ma sia piuttosto da sottoporre a princìpi e regole morali che la più ampia comunità internazionale ha riconosciuto come tali già dalla fine del Settecento e, soprattutto nell’arco dell’intero Novecento, ha dichiaratamente conquistato pagandola al caro prezzo di milioni di morti. Si tratta dunque di una questione umana e umanitaria. Ma quanto siamo in grado di far valere quella che dovrebbe essere la supremazia dell’uomo sulla contingenza storica, sulla stessa legge e sulle stesse istituzioni, qualora siano contrarie a tali princìpi fondamentali? La domanda, ahimè, si pone a tutte le latitudini e in innumerevoli circostanze. Appare paradossale, oggi, interrogarsi sulle questioni inerenti l’Intelligenza Artificiale, per la quale si possono richiamare in causa le proverbiali tre leggi della robotica di Asimov come fondamento della più elementare tutela dell’essere umano dall’informatica e dalle sue future applicazioni ad un mondo sempre più virtuale e disumanizzato, ma poi non avere alcuna capacità di far valere fra noi stessi essere umani dei princìpi sanciti e riconosciuti ormai da due secoli e mezzo.

4. Il caso della Colombia: un esempio da emulare?
In Colombia si è verificato un processo di pacificazione che iniziò già negli anni Sessanta, ma più pragmaticamente si definisce come processo di pacificazione quanto avvenuto a partire dal 2012 fra il governo presieduto dal presidente Santos e le Forze Armate Rivoluzionare della Colombia (FARC). Già l’arco temporale di questo processo dovrebbe indurci al pessimismo, perché cinquanta anni di conflitti interni e tentativi di negoziato hanno comunque estenuato chiunque, le istituzioni, l’economia, la popolazione, ed è singolare che il processo sia giunto a esiti positivi. Un altro elemento degno di riflessioni pessimistiche è che tale processo sottoposto a referendum popolare ottenne il 50,2% di contrari contro il 49,8% di favorevoli; per cui le parti, Governo e FARC, hanno successivamente inviato l’accordo di pace alla diretta ratifica del congresso, senza sottostare ad un nuovo referendum. Tale questione è significativa di quanto paradossali possano essere certi passaggi storici che sebbene invocati anche dal popolo che ha subito per anni dei soprusi, possano essere vanificati nel momento in cui il popolo stesso è chiamato ad esprimere direttamente il proprio consenso attraverso una votazione.
Ma vi sono alcuni elementi del processo di pace colombiano che vale la pena osservare da vicino per comprendere se possano essere elementi importanti da mettere in evidenza per un processo di pacificazione da attuarsi in Afghanistan:
a) contrasto ideologico;
b) conflitto identitario;
c) disputa sulle risorse;
d) conflitto fra narco-trafficanti e malavita organizzata;
e) conflitto geo-politico.
I protagonisti dell’annosa negoziazione colombiana sono il Governo e l’ala destra delle forze paramilitari che appoggiano il governo, e i guerriglieri di sinistra.
La molteplicità dei gruppi armati e i diversi tentativi di pacificazione hanno ottenuto un solo risultato certo: mettere al centro dell’attenzione la popolazione e il bene dei cittadini. Ma può il caso della Colombia diventare paradigmatico a livello internazionale per un processo di riappacificazione anche in Afghanistan? Beh, personalmente credo che da un punto di vista concettuale si possa rispondere sì, ma da un punto di vista pratico vi sono troppe differenti variabili in gioco: l’annosità delle controversie, la natura delle controversie stesse (economiche, legali o illegali, militari, di potere, di prestigio…). Ma proseguiamo l’osservazione del caso colombiano.
In Colombia si è tenuto molto a fare una netta distinzione fra “fine del conflitto” e “trasformazione del conflitto”: ovvero a differenziare fra Negoziato di pace e Processo più ampio di pacificazione. Si sono ricercate ulteriori iniziative di pace rispetto a quanto portato avanti fra Governo e FARC; in particolare per ulteriori aspetti da porre in discussione, ulteriori attori da chiamare in causa, nuove iniziative da porre in essere, e nuovi limiti temporali nei quali mettere in atto le necessarie trasformazioni.
Altrettanto importante, si sono messe le “vittime” al centro di ogni trattativa. Questo punto è interessante principalmente per il suo aspetto umano, ovviamente non dimenticando le implicazioni politiche. Senza dubbio perché è significativo che siano messe al centro dell’attenzione le vittime del conflitto armato e le loro testimonianze piuttosto che i più scontati interessi economici e giochi di potere. La Colombia ha dunque basato il processo di pacificazione perché questo rispondesse al diritto delle vittime a ottenere verità, giustizia, e garanzie di non recidiva; che è un aspetto davvero rilevante dell’intera vicenda.
Si è puntato inoltre a indirizzare i negoziati sui temi dello sviluppo rurale e del traffico di droga; ad istituire una “sottocommissione di genere” per la vigilanza sugli accordi; e per prepararsi alla messa in pratica delle misure ancor prima che fossero completati i negoziati a più livelli.
Questo processo è stato supportato dall’opera di tre istituti: 1) una Giurisdizione speciale per la pace, ovvero un tribunale di transizione che si sarebbe occupato dei maggiori abusi circa i diritti umani; 2) una Commissione della verità, che completa il lavoro dei tribunali per rilevare le dinamiche dietro al conflitto, assistere le vittime e assicurare che il conflitto non si ripetesse; 3) una Unità di ricerca dei “desaparecidos”, che lavora con le vittime e le comunità per ricercare gli 80.000 dispersi durante gli anni del conflitto con il FARC.
Le “innovazioni” presenti nel processo di pacificazione della Colombia possono addirittura apparire più interessanti dei risultati stessi, forse per la loro audacia.
Vediamo quali “innovazioni” sono state evidenziate.
- Gli autori del reato che collaborano con la giustizia avrebbero potuto ottenere una riduzione della pena e scontarla lavorando per riparare i danni causati alle vittime piuttosto che stare in prigione. Se non collaborano possono ricevere pene fino a venti anni di carcere.
- I negoziati sono stati incentrati sullo sviluppo rurale e sul traffico di droga. La violenza nelle zone rurali della Colombia si è basata sulla diseguaglianza fondiarie e su modello fallito di sviluppo rurale. La Colombia sta assumendo un ruolo guida nel promuovere un cambio di paradigma nella politica globale sulla guerra alla droga. Ciò potrebbe influenzare le risposte internazionali ad altri conflitti con legami significativi con la produzione di droga, in particolare quello in Afghanistan.
- La “sottocommissione di genere” per la vigilanza sugli accordi è stata composta da un numero variabile di donne provenienti da ogni delegazione, e da tre membri internazionali. Fra il dicembre 2014 e il marzo 2015 la commissione ha invitato tre delegazioni di organizzazioni civili a lavorare su temi relativi al genere (incluse tematiche legati al mondo LGBT).
- Ci si è preparati all’attuazione delle misure ancor prima che fossero completati i negoziati a più livelli che si è tradotto in uno sforzo concettuale, istituzionale, sociale e internazionale.

5. Cosa tenere per il futuro
Appare piuttosto evidente che il “caso Afghanistan”, soprattutto per la questione delle violazioni dei diritti umani nei confronti dei cittadini afghani e delle donne in primo luogo, sia un “caso” per una maggioranza della popolazione mondiale – a iniziare dagli stessi afghani che sono fuggiti in esilio fino dagli anni Ottanta – e lo sia anche per buona parte della comunità internazionale, ma non lo sia, né possa esserlo, per quel ristretto gruppo che occupa il potere a Kabul.
Ma questa evidenza è solo una delle differenze nel confronto fra Afghanistan e Colombia. Va osservato che la Colombia è sempre rimasta uno Stato, con un suo Governo e le sue istituzioni, e la guerra ha avuto luogo fra lo Stato da una parte e gruppi sparsi di guerriglieri dall’altra. Ci sono caratteristiche di guerra civile che possono riecheggiare anche nel caso afghano, ma in Afghanistan l’apparato statale appare essersi invece frantumato negli anni recenti, esautorato e sostituito più volte con una possibile perdita di capacità di rispondere alle istanze dei cittadini. Non è più presente un istituto che possa difendere gli interessi del popolo, e i talebani si sono sostituiti de facto alle diverse forme di potere avvicendatesi in circa cinquanta anni (prima la monarchia conclusasi nel 1973, poi il regime comunista nei primi anni Ottanta, e ancora il governo islamico dei mujaheddin, fino al regime islamico dei talebani, interrotto per venti anni dagli Stati Uniti, ma ripreso a partire dal 2021) rivendicando un potere basato su valori e princìpi, imposti unilateralmente, che non possono certamente dirsi in continuità col passato.
Inoltre, i tre “istituti” che sono stati i controllori del processo di pacificazione colombiano appaiono impossibili da nominare e gestire in Afghanistan. Il loro posto dovrebbe probabilmente essere preso da istituzioni internazionali o da Stati terzi. Resta una questione ancora tutta da approfondire.
Come aprire un dialogo apparentemente impossibile con un gruppo di persone tanto culturalmente diverse dal comune sentire e tanto distanti da quei princìpi di dignità umana, di libertà personale e di emancipazione sociale riconosciuti fondamentali in Occidente e sanciti come tali da oltre due secoli?
La soluzione raggiunta in Colombia è stata il frutto di anni di trattative, e può rappresentare un segnale di speranza il considerare quanto lontano nel tempo fosse radicata la storia del conflitto armato che si è consumato in quel paese e nonostante quelle lontane radici si sia potuto arrivare ad un cambiamento così significativo. Ma viene altrettanto spontaneo chiedersi quale sia stata la “posta in gioco” sul tavolo delle trattative, per individuare con essa l’ordine valoriale sul quale potersi incontrare.
Certamente una sorta di “indulgenza” (la riduzione della pena) nei confronti di chiunque avesse accettato di collaborare con la giustizia è una valida “posta” da mettere sul tavolo, ma presuppone il riconoscimento che quanto accaduto e quanto perpetrato in passato sia ascrivibile a reato, ingiustizia, sopruso ecc. Certamente la popolazione colombiana non ha avuto dubbi sulla natura delle sofferenze subite. Ma se – e non mi pare sia un esempio ma un dato di fatto – le azioni e i misfatti dei talebani sono dichiaratamente operati “in nome di Allah” come li possiamo traslare dalla categoria di “azione divina” a quella di “azione demoniaca”? Come abbiamo sottolineato all’inizio ciò che è valido per gran parte della comunità internazionale e per noi occidentali, ha significato opposto per la controparte.
Un altro aspetto interessante del caso colombiano è che le trattative per una pacificazione sono state portate avanti a tappe e gruppo per gruppo, sin dall’inizio degli anni Novanta. Ciò suggerirebbe che in Afghanistan si potrebbe aprire e gestire un dialogo con le varie etnie singolarmente per fare crescere un sentimento nazionale comune. Ma non ho alcuna informazione circa le possibilità di un tale dialogo e, soprattutto, sarebbe da chiedersi “chi possa farlo” e “a nome di chi”.
In conclusione, quali sono gli strumenti che il diritto internazionale ci offre per fare valere princìpi e valori internazionalmente riconosciuti anche a quel ristretto gruppo di talebani a Kabul?
Il diritto internazionale offre diversi strumenti per far valere princìpi e valori che sono internazionalmente riconosciuti. Tutti gli Stati considerano fonti primarie del diritto internazionale le norme di “diritto internazionale generale”. In particolare, princìpi come il “divieto di uso della forza” sono riconosciuti come norme imperative e inderogabili. La deroga a certi princìpi determinerebbe il ricorso alla giurisdizione internazionale per la soluzione delle controversie fra gli Stati o tra gli individui e gli Stati; o il ricorso a organizzazioni internazionali, prime fra tutte l’ONU.
La cronaca afghana ci sottopone diversi casi che potrebbero essere ascritti alla categoria di “genocidio”, ad esempio quello nei confronti della popolazione degli “hazara” o, per applicare categorie morali e culturali che vanno di moda oggi, se osserviamo quanto sta accadendo nei confronti delle donne, si potrebbe addirittura ascriveri a “genocidio di genere”. Sarebbe possibile invocare la giurisdizione da parte della Corte Penale Internazionale circa il genocidio – o le varie forme di genocidio che si stanno perpetrando – in Afghanistan? Forse nei confronti degli hazara qualcosa si sta muovendo, ma non risulta che il mondo si stia movimentando in difesa delle donne afghane.
Di fronte a situazioni tanto complicate quanto contraddittorie come quella dell’Afghanistan, il quesito che dovrebbe prevalere su tutti è: quando l’umanità metterà seriamente l’uomo davanti agli interessi di parte? Secoli di lotte politiche e sociali per i diritti umani hanno subito negli ultimi anni un drastico arresto e addirittura un dietro-front, e in Afghanistan in modo clamorosamente antistorico. Il caso della Colombia farebbe ben sperare, se non fosse inevitabile intravedere le grandi differenze fra i due paesi e quindi fosse spontaneo chiedersi cosa di quanto accaduto e che sta accadendo in Colombia sia applicabile all’Afghanistan.

6. Chi potrebbe fare il ruolo del mediatore?
Nel 2023 il mondo sta osservando, in modo ambivalente e imbarazzato, due guerre in corso: quella in Ucraina tra la NATO e la Russia, (dal febbraio 2021) e quella in Israele tra israeliani e palestinesi (da ottobre 2023). Un tratto caratteristico di queste guerre che nessuno avrebbe immaginato possibili solo due anni fa, quando il mondo riscopriva una parvenza di umana solidarietà sotto lo stesso cielo trovandosi ad affrontare per la prima volta il grande nemico comune del Covid-19, è che si tratta di guerre esistenziali, ovvero guerre di identità.
In particolare la guerra di Israele contro la Palestina assume connotazioni religiose e messianiche che rendono improbabile una negoziazione per porre fine al conflitto, perché il nemico è “squalificato” fin dall’inizio come un avversario in tutto e per tutto, un criminale che deve essere non solo sconfitto, ma anche definitivamente annientato. Anche in questo caso non possiamo qui analizzare le ragioni antropologiche. Ci limitiamo a prendere atto dell’antico fronte di conflittualità umana, quello della differenza di religione. Se la guerra non ha come posta in gioco il solito territorio, i soliti vantaggi economici, ma addirittura si configura come guerra fra Bene e Male la questione diventa esistenziale, e una o entrambe le parti non sentiranno ragione alcuna: pena la loro stessa sopravvivenza. Ogni mezzo diviene dunque legittimo per proseguire la guerra. Ne consegue che di fronte ai contendenti diventa quasi impossibile per qualsiasi terza parte adottare una posizione di neutralità che consenta di offrire una mediazione senza cadere, per forza di cose, sull’uno o sull’altro fronte. Soprattutto se le terze parti hanno relazioni culturali, sociali e commerciali con ciascuna delle due parti contendenti. È quanto accade per i paesi europei nei rapporti con Russia e Ucraina. È quanto, su altri fronti e per altre ragioni, potrebbe capitare nei confronti dell’Afghanistan.
Ma siamo ancora nella situazione per la quale l’Afghanistan è regione contesa fra gli storici blocchi contrapposti di Russia e Stati Uniti? Non credo, e non ho informazioni sufficienti per affermare quale sia l’attuale interesse commerciale verso l’Afghanistan, soprattutto con la recente crisi economica interna. Ma dovremmo porci comunque la questione di fondo: stiamo con i talebani contro il popolo afghano, o stiamo col popolo afghano contro i talebani?
Nell’uno e nell’altro caso, sorge il problema della rappresentanza e della rappresentatività. Chi dovrebbe rappresentare l’interesse della popolazione afghana se non gli afghani stessi?

7. Ricostruire la rappresentanza e la democrazia per il popolo afghano
Superfluo sottolineare che nessuno meglio degli afghani stessi possano parlare per se stessi, per la propria cultura e tradizione. Ma di fronte a un potere detenuto con la forza è noto che la libertà di espressione viene meno. La democrazia viene cancellata. Cosa fare?
Ci sono 10 milioni di afghani fuori dall’Afghanistan. Forse spetta a loro prendere il testimone della storia e decidere del futuro di quel paese. A tal proposito, Ahmad Massoud, figlio del noto “leone del Panjsher”, nel settembre 2022 è già stato in missione in Europa per cercare di un unire la diaspora afghana. Il fine dichiarato è quello di dare voce ai tanti afghani lontano dalla Patria. Lo stesso Massoud, intervistato a Vienna, ha dichiarato che l’unica possibilità negoziale: «è un governo afghano legittimo scelto dal popolo attraverso libere elezioni, anche se il voto facesse vincere i talebani. Credo che la soluzione dovrebbe essere politica e non militare, ma hanno preso il potere armi in pugno. Se i talebani cambiassero attitudine sono pronto a negoziare».
Per corroborare i diritti del popolo afghano, dare loro pienezza di autonomia e cognizione di causa, è necessario che soprattutto i giovani possano compiere i loro studi o terminarli qualora interrotti. Ecco che diventa prioritario e urgente sostenere la diaspora afghana perché possa riconoscersi, interagire, dialogare, crescere e far sentire la propria voce.
In particolare, sappiamo che alle donne è stato negato l’accesso all’istruzione oltre la scuola primaria. Ma molte donne afghane sono fuggite dall’Afghanistan e potrebbero terminare gli studi negli Stati Uniti o in Europa. La privazione del diritto di studio per le donne afghane ci induce a sostenere iniziative che possano rispondere alle loro esigenze di preparazione professionale. In proposito si è già da più parti invocato un interesse del governo italiano e delle università perché si possano iscrivere le ragazze afghane ai nostri corsi universitari. Tale proposta ha come oggetto tre punti essenziali:
1) attivare le necessarie procedure per il visto di ingresso alle donne provenienti da Myanmar, Afghanistan e Iran;
2) attivare le pratiche di iscrizione di tutte le ragazze che ne facciano richiesta;
3) istituire un fondo speciale per tale iniziativa con fondi privati.
Ridare piena dignità a qualunque cittadino afghano, ridare al popolo afghano libertà di parola, di studio, di movimento, a iniziare da coloro che si trovano oggi a vivere nel nostro “mondo libero”, è una precondizione perché il popolo afghano stesso torni a fare sentire la propria voce e a decidere del proprio destino.


Gherardo Lazzeri
 
  


 
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Capacità operativa iniziale della componente F-35b imbarcata
Ottenuta dopo oltre 2600 ore di volo e 2700 interventi di manutenzione; traguardo...
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