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Riflessioni sul colpo di stato in Mali
Si vedrà a breve: non mancano gli strumenti alla Comunità Internazionale per monitorare i propositi dei militari
07-09-2020 - La videoconferenza dei Ministri e dei rappresentanti dei Paesi che aderiscono alla Coalizione per il Sahel *1 e incentrata principalmente sul recente cambio di regime in Mali, a seguito del colpo di stato del 18 agosto 2020, offre lo spunto per alcune considerazioni (l’incontro segue analogo vertice tenutosi il 30 giugno 2020 a Nouakchott, Capitale della Mauritania).
Innanzitutto, dovrebbe rappresentare l’occasione per una concreta presa di coscienza da parte dei Paesi Occidentali dei problemi del Mali, segnato da anni di conflitti, povertà e corruzione, per il suo ruolo “cardine” nella lotta al terrorismo.
Il jihadismo saheliano non è simile a quello siriano o afghano, è una letale combinazione di contrabbando, economia criminale del deserto, mescolanze etniche e tribali, un po' di teologia e, soprattutto, abile sfruttamento delle iniquità che spesso i regimi compiono in quella parte del mondo.
Il putsch (il quarto in sessant’anni dall’indipendenza – 1960), dopo mesi di proteste, è conseguenza della percezione diffusa nella popolazione e fatta propria dai militari di un Presidente e di un governo fortemente corrotti *2, incapaci di gestire la crisi economica e di combattere i gruppi armati, in particolare nel Nord del Paese.
I cittadini, stando alle recenti cronache, avevano perso la fiducia nei politici e si sono rivolti ai militari non per instaurare un sistema democratico come è inteso in Occidente, ma per far prevalere la giustizia (sociale soprattutto) e la sicurezza.
In Paesi dove non esistono strutture socio-politiche e partiti in grado di saper affrontare crisi del genere, i militari possono svolgere un ruolo di transizione tra un sistema e un altro (come le F.A. turche erano depositarie sino ad alcuni anni orsono dell'unità dello Stato e della laicità della società, e le custodi della costituzione, come previsto da Kemal Atatürk).
Ovviamente la Comunità Internazionale ha condannato questo abuso di potere dei militari. Per i nostri governi, infatti, un golpe non è accettabile in linea di principio ed è contro i nostri valori democratici.
Il colpo di stato, inoltre, potrebbe costituire un pericoloso precedente, dal momento che altri Paesi dell’Africa Occidentale saranno interessati nel prossimo futuro a consultazioni elettorali potenzialmente conflittuali.
Tuttavia è necessaria una riflessione.
L’evento deve essere contestualizzato e non valutato secondo un approccio etnocentrico, che privilegia i valori della nostra cultura per analizzare le altre culture (tipico errore occidentale), in particolare le più lontane, e che considera i nostri valori come universali.
Erano mesi che avevano luogo in Mali manifestazioni sempre più animate e rabbiose che chiedevano un radicale cambiamento in favore di una classe politica più reattiva, più responsabile e più legittima. La popolazione aveva perso progressivamente confidenza nelle istituzioni che non erano in grado di proteggerla dagli attacchi jihadisti, di evitare le lotte tribali e di migliorarne la condizione economica.
L’apogeo di tale malcontento si è avuto nell’aprile scorso allorché la Corte Costituzionale aveva alterato i risultati delle elezioni legislative.
Malgrado una significativa presenza internazionale nel Paese, rappresentata dalle missioni ONU (MINUSMA) e UE (EUTM), dalle Organizzazioni regionali dell’UA e dell’ECOWAS, dai Paesi Occidentali dell’Operazione Barkhane, non è stato fatto nessun tentativo per disinnescare l’evidente crisi prima del colpo di stato, limitandosi alle consuete (quanto inutili) affermazioni del tipo: lavoriamo per rispondere positivamente alle aspettative di pace dei popoli del Sahel.
Se il sistema di giustizia dei militari è avvertito come più equo del corrotto e disfunzionale sistema di giustizia del governo centrale, il cittadino lo valuterà più legittimo, nonostante i possibili rischi di una deriva autoritaria, quale espressione di una percezione soggettiva e non di elementi oggettivi come la democrazia o lo stato di diritto.
Spesso le giunte militari cadono per via di altri golpe e non sono meno avvezze alla corruzione dei governi politici eletti. In Mali si vedrà a breve: non mancano gli strumenti alla Comunità Internazionale per monitorare i propositi dei militari.
Il Comitato Nazionale per la Salute del Popolo ha annunciato l’intenzione di mettere in atto una transizione inclusiva, coinvolgendo tutti gli attori politici, sociali e religiosi per tracciare una nuova via politica per i tutti i Maliani, confermando nel contempo ai partner internazionali il rispetto degli impegni in corso, quali l’Accordo per la Pace e la Riconciliazione del 2015 e la lotta al terrorismo.
La Comunità Internazionale, e in particolare i Paesi della Coalizione per il Sahel, dovrebbero evitare di focalizzarsi unicamente sulla durata della transizione e sui personaggi che la dovranno portare a termine per concentrarsi, invece, sui risultati da conseguire (riforme in campo sociale ed economico, sistema elettorale, servizi pubblici, settore della sicurezza) e le relative priorità che dovrebbero essere definite nell’ambito di un dibattito nazionale e non imposte dall’esterno.
Anche la presenza straniera ispirata dalle migliori intenzioni può essere percepita dalla popolazione come un’imposizione di un sistema politico estraneo alla propria cultura.
Le operazioni in Iraq e in Afghanistan hanno confermato questo approccio, in cui chi interviene ritiene di sapere meglio dei locali cosa serva loro in termini di governance, modelli sociali ed economici.
I governi stranieri determinano scelte che impattano direttamente sulle situazioni locali, correndo così il rischio di essere considerati neo-colonialisti e distanti dalle realtà autoctone.
Cercare di promuovere dall’esterno la democratizzazione, ignorando che non bastano le istituzioni democratiche per produrre democrazia in culture che, qualunque siano i loro meriti, non hanno una società civile di modello occidentale, rischia di agevolare l’instaurazione di regimi ostili e ancora più autoritari.
Nel caso specifico del Mali, l’assunzione di una posizione troppo rigida nei confronti dei golpisti con l’imposizione di sanzioni potrebbe, oltre ad aggravare una situazione umanitaria già critica, indurre la giunta militare a cercare o accettare il supporto di Russia, Cina e Turchia, tutte e tre in rapida espansione in Africa.
Occorre, invece, conoscere il territorio, la cultura e la storia, gli usi e costumi di quel Paese, parlare con la gente, capire cosa intendono le popolazioni quando chiedono maggiore sicurezza: potrebbe significare solo “andare al pozzo per prendere l’acqua, mandare i figli a scuola, poter essere curati, ecc.”. Ma spesso sia il governo locale che la Comunità Internazionale non lo capiscono.
Del resto, per risolvere una grave crisi socio-politica di un’area o di una Nazione, non basta aver letto la guida turistica Michelin sull’aereo e avere la presunzione di credere di essere un esperto di questo o quello Stato, nell’effimera convinzione di non avere necessità di osservare, ascoltare e comprendere le reali esigenze della popolazione!
*1) Ministri della Difesa di Belgio, Canada, Estonia, Francia, Grecia, Italia, Norvegia, Portogallo, Repubblica Ceca, Spagna, Svezia e i rappresentanti di Danimarca, Finlandia, Germania, Paesi Bassi, Stati Uniti d'America, ONU e UE. 
*2) Il Mali, secondo l’annuale classifica di Transparency International, organizzazione internazionale non governativa che si occupa della corruzione, nel 2019 si trova al 130 posto su 180 Paesi presi in esame (l’Italia è al 51 posto). //www.transparency.org/en/cpi/2019




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