06:51 venerdì 29.03.2024
La campana di Qaraqosh
Un uomo, un popolo non sono soli se fede e determinazione li conducono in ciò in cui credono
fotografie di: Daniel Papagni

10-10-2017 - Siamo nella regione del Kurdistan da alcuni giorni, in attesa della fatidica giornata della votazione popolare al referendum per l'indipendenza dall’Iraq.
Nei giorni prima e dopo il voto, le forze armate irachene ed iraniane conducono esercitazioni militari congiunte ai confini del Kurdistan; a seguito del risultato del referendum, l’Iraq chiude gli aeroporti internazionali di Arbil e di Sulaimania; il parlamento di Baghdad espelle dieci parlamentari curdi che hanno votato sì al referendum e minaccia la chiusura dei varchi di frontiera, vieta acquisto e vendita di petrolio curdo e vuole il controllo di tutte le società di telecomunicazione; anche la Turchia aderisce alla decisione di Baghdad di boicottare la richiesta di indipendenza.
"Nel caso dell'Iraq settentrionale, l'Iran, l'Iraq e la Turchia costituiranno un meccanismo tripartito e decideranno di chiudere l’esportazione del petrolio estratto nella regione”.
Con queste parole, Recep Tayyip Erdogan, Presidente della Turchia, dopo un incontro con il Presidente iraniano Hassan Rouhani e il capo supremo Ayatollah Khamenei, ha espresso il proprio parere nei riguardi della richiesta del popolo curdo di rendersi indipendente da Baghdad.
Questa la situazione attuale nella regione curda.
E’, a tutti gli effetti, una vera e propria dichiarazione di vendetta contro la volontà unanime dei Curdi di gestire la propria indipendenza.
E forse era prevedibile...
Il referendum era nell’aria da circa tre anni, dal tempo in cui il governo di Baghdad smise di contribuire alla gestione della regione del Kurdistan, non pagando i salari alle Forze Armate né ai Peshmerga e non corrispondendo al governo curdo il rispettivo guadagno dell’esportazione del petrolio, estratto in Kurdistan, ma gestito dal Baghdad.
Così che il Kurdistan si trova solo a sostenere sforzi economici per sopravvivere.
Non solo; il Kurdistan ha dato e continua ad offrire ospitalità a rifugiati di ogni etnia e religione, da quando l’Iraq è stato invaso dalle milizie dell’ISIS. Due milioni di rifugiati sono un numero immenso per un una regione di 5 milioni di abitanti.
Arbil ne è un esempio tangibile, così come Sulaimania, con i loro campi in cui vivono profughi provenienti anche da Iraq.
Ed ora che le città, distrutte dal califfato, son state liberate, incominciano i loro abitanti ad abbandonare i campi profughi, per rientrare in ciò che è rimasto delle proprie abitazioni, per riprendere una sorta di vita normale.
Una delle città cristiane colpite dalla furia del califfato, Qaraqosh, sta lentamente prendendo forma grazie al rientro di parte della sua cittadinanza.
Decidiamo di ritornarvi e di compiere il percorso da Arbil proprio domenica 24 settembre, il giorno prima delle votazioni per il Referendum.
Ci avvertono di stare attenti, perché è un momento particolare, come nel corso del viaggio abbiamo potuto constatare,…potremmo rischiare di essere bloccati.
Lo scorso anno a Qaraqosh eravamo con abuna Jalal Yako, padre rogazionista.
Lo chiamiamo per chiedergli se possiamo ripetere la visita alla città insieme a lui: pare contento di rivederci.
Al telefono ci dice di essere già a Qaraqosh e di non voler venire ad Arbil ad incontrarci, per timore di non poter poi rientrare…il referendum non è gradito all’Iraq…
Capiamo che la situazione non è semplice. Ma decidiamo di proseguire nel nostro programma, stabilendo precisi orari per evitare di rimanere bloccati, perché entro le ore 13,00 i check point saranno chiusi. Un ulteriore chiaro segno di avversione al referendum.
Chiediamo a Yako se possiamo essergli utile, portando qualcosa da Arbil: “Portatemi la vostra forza e la vostra salute” è la sua risposta.
Con Habib, arabo-cristiano che ci viene consigliato da Yako, partiamo all’alba. Percorriamo la strada che già conosciamo, sconnessa, con intervalli di sassi e terra, con ai lati detriti, macerie e campi ancora minati, campi di profughi; passiamo al controllo di sette chek point curdi, gestiti dai Peshmerga e quattro check point controllati da militari iracheni.
Intravediamo mezzi delle milizie sciite, le loro bandiere e quelle degli Shabak (seguaci di Safawiyya); e mezzi iracheni con armi puntate verso Erbil…il referendum è proprio sgradito! Si stanno dunque preparando azioni di vendetta.
Avvertiamo il clima teso; anche gli Shabak con le loro milizie son contrari all’indipendenza del Kurdistan e non accettano che i Curdi entrino nella piana di Ninive. Se si verificassero scontri, ci dicono, gli Shabak, contrari anche ai Cristiani, aggredirebbero i Curdi.
Entrati in Qaraqosh, siamo accolti da abuna Jalal Yako con grande calore: apprezza la nostra volontà di seguire le sorti di queste città martoriate; e Qaraqosh è la sua città natale, in cui è conosciuto da tutti, cristiani e musulmani e da tutti amato.
La sua abitazione contiene lo stretto necessario, ma non manca la bandiera italiana.
Una stanza è adibita ad accogliere bambini, con giochi, quaderni e matite, libri.
“In Qaraqosh, ci dice, è rientrata un po’ meno della metà degli abitanti, perché la maggior parte, timorosa, aspetta il risultato del Referendum; è tutta da ricostruire, ricominciando tutto daccapo! Un grande lavoro è stato già svolto, nel ripulire parte delle strade dalle macerie…” ci racconta Yako, mentre camminiamo avvolti da un odore acre di immondizia pesante che brucia, “ma ancora siamo in difficoltà, per mancanza di denaro”.
Per ripristinare il servizio elettrico nel suo quartiere ha speso 12mila dollari, che alcuni benefattori hanno versato alla sua comunità: “A Qaraqosh si è fatta viva la Provvidenza…una volta pregando dissi -Signore, oggi non ho da mangiare-….Poco dopo bussò alla mia porta un uomo, con un piatto colmo di cibo che volle condividere con me”.
La fede e la determinazione lo sostengono, dandogli quella forza che egli riesce a trasmettere ai suoi concittadini.
Ci mostra la chiesetta, ove celebra la Messa: il tabernacolo distrutto e bruciato.
E camminando tra macerie, indica alcune abitazioni in cui le famiglie stanno riprendendo la vita quasi normale.
Siamo invitati da una di queste; entriamo accolti da abbracci e sorrisi ed un ottimo caffè.
“Abbiamo sette figli, uno in Australia, uno in Germania, altri qui con noi, con i nostri nipoti. Dopo il referendum? non sappiamo cosa possa accadere, non sapremmo più dove fuggire in caso di gravi problemi; dobbiamo essere ottimisti, perché dobbiamo pensare al futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti”, ci dice il padrone di casa, affiancato dalla moglie che, in abito colorato, conferma la propria volontà di andar avanti, inshallah; la casa è pulita, decorosa, anche se ancora in fase di ristrutturazione. Il futuro?
“Inshallah, non possiamo prevedere, possiamo solo sperare che sia migliore di ora”.
Vi sono detriti per le strade e ancora case demolite dalla furia del Daesh, che non potranno essere ristrutturate, non esistendo più alcunché che possa essere aggiustato.
Se l’anno scorso, camminando tra distruzione e macerie ancora fumanti, sentivamo colpi d’arma da fuoco di cecchini ancora nascosti nella città, questa volta abbiamo potuto, seppur con molta circospezione, testimoniare come l’ISIS operava scavando tunnel sotterranei.
//www.cybernaua.it/video/video.php?idvideo=128
Case sventrate in cui le stanze sono ancora stracolme di terra, scavata per creare canali sotterranei in cui nascondersi e attraverso cui poter poi fuggire, senza che occhio umano o satellitare potesse vedere.
Yako ci mostra l’immenso foro di ingresso di uno dei tanti tunnel, scavato in una casa che non sarà certo facile riportare ad essere abitabile.
Ciò che resta della città fa pensare che occorreranno anni di duro lavoro per riprenderne la funzionalità. Ma coloro che già sono rientrati, armati di buona volontà e determinazione, lavorano alacremente.
Alcuni hanno già aperto piccoli negozi, con le porte nuove di cristallo e le vetrine, colorate dalle varie merci in vendita, che fanno da contrasto con le macerie ancora ai lati della strada.
Ci saluta un commerciante, offrendoci un succo di arancia; un altro ci offre acqua; un cittadino gira in motocicletta, esprimendo in arabo la sua gioia per la vittoria contro ISIS e la sua speranza nel futuro di Qaraqosh e tutti, con grande stima e affetto, abbracciano abuna Yako, il loro pastore, colui che da solo, determinato nel proseguire la propria missione, con coraggio ha intrapreso la via della rinascita.
Ci conduce a rivedere la Chiesa Madre della santissima Vergine, in fase di ristrutturazione da quello scempio che vedemmo lo scorso anno.
Anche la chiesa di s. Banam e Sara è agibile: ora l’ingresso è anche controllato da una guardia del NPO (Ninive Protection Unit), armata di Ak47.
Entriamo per testimoniare quanto sia stato già fatto per dare la possibilità ai fedeli di frequentare il proprio luogo di culto. Là dove lo scorso anno abuna Yako si era seduto su una sedia distrutta per piangere, ora sono sistemate file ordinate di sedie e di banchi per pregare: “…il vescovo qui celebra la messa ogni domenica, ci dice Yako, e gli operai continuano a lavorare per ripristinare anche le parti laterali della chiesa, come la cappella dei Domenicani e la casa delle suore, da sempre in questa struttura che ha origini antiche”.
E con grande gioia negli occhi ci indica di guardare in alto:
//www.cybernaua.it/video/video.php?idvideo=129
“Vedete la campana che lo scorso anno trovaste abbattuta nel cortile della chiesa? Eccola, al suo posto, ha vinto la sua battaglia ed ha ripreso a suonare ed ogni giorno chiama i fedeli alla celebrazione della Messa”.
(continua)
Maria Clara Mussa


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