13:09 giovedì 28.03.2024
Ritiro dall’Afghanistan: decisione epocale per la Nato?
Approfondiamo la questione con il generale Giorgio Battisti che è stato il primo Comandante del Contingente Italiano della missione ISAF in Kabul nel 2001
fotografie di: Cybernaua Archivio

18-06-2021 - Il ritiro delle truppe della coalizione internazionale, da venti anni impegnata in Afghanistan con l’obiettivo di ristabilire democrazia e libertà nel Paese, è stato deciso dal governo USA e di conseguenza dai Paesi della Nato.
È ora di porre fine a questa lunga guerra” ha dichiarato il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden, nel dare la notizia della propria volontà di chiudere il gravoso impegno.
Per l’11 Settembre prossimo, e forse prima, dunque, le truppe americane rientreranno in Patria.
E così sarà pure per il contingente italiano.
L’impegno dell’Italia in Afghanistan è iniziato nel dicembre 2001 con la missione multinazionale ISAF (International Security Assistance Force”). Da febbraio a ottobre 3003 l’impegno si è esteso alla missione Enduring Freedom.
ISAF, durata tredici anni circa è terminata nel dicembre 2014, con l’inizio della Resolute Support Mission, in previsione della Exit Strategy e tuttora in atto.
Abbiamo l’occasione di approfondire questo argomento di grande importanza internazionale con il generale Giorgio Battisti, che è stato il primo Comandante del Contingente Italiano della missione ISAF in Kabul (Afghanistan) dal dicembre 2001.
Nel 2003 è stato il primo Comandante del Contingente Italiano in Afghanistan, sia per la missione Nibbio 1 (nell'ambito dell'Operazione “Enduring Freedom”) sia per la missione ISAF.
Successivamente, è ritornato in Afghanistan nel luglio – dicembre 2007, quale ACOS SPT di HQ ISAF, e a gennaio 2013 – gennaio 2014, quale COS di HQ ISAF e comandante di NRDC-ITA. //www.cybernaua.it/news/newsdett.php?idnews=3927

Quali sono i termini dell’Accordo di Doha?
‘’L’Afghanistan è ritornato prepotentemente alla ribalta dopo l’annuncio statunitense di aver raggiunto il 29 febbraio 2020 un accordo (quadro) con i Talebani per il ritiro (graduale) delle proprie forze da quel martoriato Paese. L’evento ha avuto un significato particolare, in quanto – giova ricordarlo – tutto è iniziato nell’ottobre 2001, dopo gli attentati dell’11 settembre, con l’intervento statunitense per deporre proprio il regime talebano – ritenuto corresponsabile di quelle azioni terroristiche – in quanto ospitava Bin Laden e le cellule di al-Qaida.
L’accordo è il risultato dei contatti avviati nel settembre 2018 dall’ambasciatore Zalmay Khalilzad, inviato speciale di Washington, che ha ricercato un dialogo bilaterale con i Talebani, escludendo il governo di Kabul, per la ferma volontà degli “studenti islamici” di non negoziare con i rappresentanti istituzionali afghani. Le quattro pagine del documento, firmato a Doha (Qatar), prevedono in sostanza quattro condizioni da soddisfare:
- l’impegno talebano (chiamato Emirato Islamico dell’Afghanistan) di non permettere che il territorio afghano sia utilizzato da parte di nessuno dei suoi membri, altri individui o gruppi (inclusa al-Qaida) per minacciare la sicurezza degli Stati Uniti e dei suoi Alleati (non viene menzionato l’ISIS);
- il ritiro di tutte le forze straniere dal Paese entro 14 mesi (1° maggio 2021), con una prima iniziale riduzione entro 135 giorni (il termine è stato posticipato all’11 settembre 2021);
- l’avvio, previsto inizialmente a partire dal 10 marzo ma iniziato solo il 12 settembre 2020, del dialogo intra-afghano con il Governo della Repubblica Islamica dell’Afghanistan (GIRoA), ritenuto un “governo fantoccio” degli USA, come quello a suo tempo del Vietnam del Sud (colloqui che si sono trascinati sterilmente per alcune settimane senza giungere a nessuna conclusione, per poi riprendere nel mese di giugno 2021);
- il cessate il fuoco e la sospensione degli attacchi contro le forze governative (mai avvenuto).
Nel testo è specificato che gli USA si impegnano a gestire il ritiro di tutte le forze straniere dall’Afghanistan: militari statunitensi, Alleati, partner della Coalizione, civili non diplomatici, contractor, addestratori, consiglieri e personale di supporto.
L’accordo, considerato un gran successo sia dall’Amministrazione Trump sia dal Segretario Generale della NATO, Jens Stoltenberg, offre diversi spunti di riflessione.
Innanzitutto, appare sbilanciato in quanto è il risultato di un’intesa bilaterale in un conflitto che vede coinvolti almeno quattro attori principali: USA, Talebani, NATO e il legittimo Governo afghano, eletto con democratiche consultazioni elettorali (seppur con irregolarità), riconosciuto a livello internazionale, alleato degli stessi Americani e da loro sostenuto.
Da evidenziare che gli Stati Uniti e il GIRoA sono legati dal dicembre 2014, alla conclusione della Missione ISAF (International Security Assistance Force), da un Bilateral Security Agreement (BSA), che stabilisce uno stretto rapporto di collaborazione in tema di controterrorismo e definisce i termini, i ruoli e il supporto che gli USA devono fornire alle forze di sicurezza afghane.
Il BSA è valido sino al 2024 e può essere interrotto dalle due parti con due anni di preavviso. Analogo documento è stato redatto dall’Alleanza Atlantica (NATO SOFA – Status of Forces Agreement).
L’accordo non fornisce chiarezza circa i meccanismi del processo di pace che dovranno essere messi in atto per verificare se i Talebani ne rispetteranno i termini, non individua chi saranno i garanti/controllori della transizione politica del Paese (USA, Cina, Russia, Pakistan, India, Iran, ONU?) e non offre chiare garanzie per la sopravvivenza dell’attuale sistema politico, mantenuto al costo di enormi sacrifici umani ed economici in 20 anni di combattimenti.
I Talebani, anche se non riconosciuti come entità statuale, sono stati di fatto legittimati ad avere un ruolo paritetico agli USA in ambito internazionale, sulla base del quale hanno orientato la narrativa a proprio favore (vedasi intervista rilasciata al New York Times, ancora prima della firma, da Sirajuddin Haqqani, numero due della Shura di Quetta e terrorista dichiarato ) presentandosi come i “vincitori” del lungo conflitto.
Legittimazione ulteriormente confermata dai 35 minuti di colloquio telefonico, avvenuto il 3 marzo 2020, tra il Presidente Trump e il Mullah Abdul Ghani Baradar, leader politico e capo della delegazione degli insorti che ha combattuto negli anni ’80 contro i Sovietici tra le fila dei mujahideen sostenuti dagli USA.
La conclusione di una simile intesa in assenza di un processo di pace tra Afghani (i Talebani non riconoscono il Governo di Kabul) rischia di consegnare il Paese agli “studenti islamici” che ritengono, con il ritiro delle forze straniere, di poter rivendicare la re-instaurazione di un teocratico emirato governato dalla legge della sharia, come ha pubblicamente affermato il Mullah Haibatullah Akhunzada, leader dei Talebani afghani: un obiettivo raggiunto senza dover rinunciare alla propria ideologia; un rischio considerato verosimile da più voci autorevoli.
Il rifiuto di un formale “cessate il fuoco” (gli attacchi alle forze governative e gli attentati alla popolazione civile sono sensibilmente aumentati dopo l’accordo) erano e sono chiari segnali dell’intenzione talebana di non voler dialogare – in modo costruttivo – ma di voler rovesciare il governo afghano e di ritornare al loro oppressivo regime.
Dal 29 febbraio 2020, giorno della firma dell’accordo, gli attacchi contro i checkpoint, le guarnigioni isolate e i reparti afghani hanno interessato tutte le 34 province con un livello di violenza tale che aveva indotto le forze USA a riprendere le incursioni aeree contro le formazioni degli insorti.
Intensità negli attacchi che stesso Comandante di CENTCOM (U.S. Central Command) Generale Kenneth McKenzie aveva rimarcato come non coerenti con la volontà di dare seguito a quanto concordato a Doha.
Non è detto, inoltre, che il gruppo che ha firmato l’accordo a Doha rappresentasse (e rappresenti tuttora) la volontà di tutte le formazioni d’insorti attualmente presenti in Afghanistan e in Pakistan. La letteratura sulle insorgenze e sui negoziati di pace evidenzia che solo i movimenti coesi sono in grado di rispettare e implementare i patti sottoscritti.
L’estensione di queste azioni aggressive non appare il risultato di una decisione presa da un comandante locale ma sembrano far parte di una strategia che mira a esercitare pressione sulle forze di sicurezza in tutto il Paese, come anche precisato dal “portavoce” degli insorti, il quale aveva affermato che la firma dell’accordo non obbliga a fermare gli attacchi contro le ANDSF (Afghan National Defense and Security Forces).
I Talebani non sono una organizzazione terroristica o di insorti monolitica con unica linea di comando, come erano a suo tempo i Vietminh e Vietcong (inquadrati da una rigida e disciplinata struttura politico-ideologica comunista). Non tutti i gruppi di insorti/terroristi condividono i termini del trattato di pace.
Secondo valutazioni statunitensi e delle Nazioni Unite sono oltre 20 le organizzazioni terroristiche attive ai due lati della Linea Durand, che segna il confine tra Afghanistan e Pakistan, che annoverano tra le loro fila numerosi militanti stranieri, tra cui 6-7.000 pakistani e alcune centinaia provenienti dal Bangladesh, Cina, India e Myanmar.
Nel Paese operano tre distinte entità di insorti e/o terroristi di matrice sunnita ma dal differente background che si contendono il potere: i Talebani, un movimento autoctono prevalentemente di etnia pashtun con profonde radici nella società locale; al-Qaida, un network terroristico internazionale; l’ISIS (o Daesh), una formazione terroristica di provenienza Medio Orientale che cerca di instaurare un califfato nella Regione (Korasan Province).
Tre entità terroristiche che, tuttavia, da tempo sono prive di leadership carismatiche.
I periodici rapporti del UN Analytical Support and Sanctions Monitoring Team, responsabile del monitoraggio dei gruppi terroristici nel mondo, confermano lo stretto legame – per i reciproci benefici – tra al-Qaida e i Talebani (rifornimenti e addestramento in cambio di protezione).
Le forze straniere, invece, dalla firma dell’accordo non hanno più subito attacchi; si tratta di vedere se tale comportamento si confermerà anche nella fase di ritiro dei contingenti’’.

Chi meglio di lei, generale, può aiutarci a comprendere il motivo per cui gli USA e di conseguenza i Paesi NATO coinvolti nella coalizione lasceranno l’Afghanistan?
‘’La decisione statunitense è stata sicuramente dettata dalla volontà di trovare una exit strategy alla situazione di stallo nella condotta delle operazioni (nessuna delle due parti riusce a prevalere sull’altra) e per le promesse elettorali del Presidente Donald Trump (bring our soldiers back home) che ha accelerato la riduzione dei propri militari ben prima delle scadenze temporali previste dall’accordo, assestandosi già a novembre 2020 su di una forza di circa 2.500 uomini.
Tale decisione sarebbe stata supportata, stando almeno ai sondaggi pre-elettorali, seppur parziali (campione di 2.000 persone) dal 76% degli Americani rispetto al solo 10% che si sarebbero opposti al ritiro delle truppe.
Appare anche la conseguenza del “triage strategico” di Washington con la revisione delle priorità in politica estera e successiva riallocazione delle risorse dove sono ritenute più necessarie (Teatro del Pacifico e dell’Europa Orientale).
Una scelta che non è stata dettata dalle manifestazioni antiwar nelle strade o nei campus universitari come ai tempi dei Presidenti Lyndon Johnson e Richard Nixon per il Vietnam (solo il 5% circa degli Americani è coinvolto nel conflitto) o dal numero di perdite; l’addestramento è ben più pericoloso. Secondo uno studio del Congresso americano del luglio 2020 solo il 26% (4.577 u.) dei militari statunitensi (inclusi i riservisti mobilitati e la Guardia Nazionale) che hanno perso la vita nel periodo 2006 – 2020 (17.645 u.) sono morti in “operazioni oltre mare” in 25 Paesi (soprattutto in Afghanistan, Iraq) e sul mare; il 74% (13.068 u.) sono morti per cause non riferite a combattimenti (incidenti, malattie, ferite autoinflitte, omicidi, terrorismo, ecc.) in 70 Paesi e sul mare (media di 913 u. per anno); di quest’ultimi, 5.120 sono periti per incidenti in addestramento.
Nell’America first di Donald Trump i Talebani erano il “male minore” con cui venire a patti, come è accaduto in Siria con i Turchi: gli interessi nazionali – o elettorali – trascendevano dalla fine dei combattimenti!
Gli alleati locali – Persia, Sud Vietnam, Iraq, Curdi e ora l’Afghanistan – abbandonati dal proprio “protettore”, possono divenire le “vittime” di questo triage se non riescono a affrontare da soli gli avversari: è come se in campo medico un paziente debba cercare di sopravvivere senza le cure.
Un conflitto costato solo agli Stati Uniti 2.445 caduti (oltre a 1.140 della Coalizione e 1.790 contractor) e circa 20.000 feriti e mutilati, e 2 trilioni di dollari che sembra essere stato completamente inutile.
Un “futuro” che assomiglia sempre più a un ritorno alla situazione antecedente l’intervento dell’ottobre 2001: un santuario dell’Islam radicale e terroristico.
Una logica realistica e bipartisan (anche il Presidente Obama aveva questa visione) che sembra accettare che non tutte le “guerre americane” possono terminare con una vittoria, come nella 2a Guerra Mondiale, e riconoscere che altre possono concludersi con “un pareggio”, come in Korea (1950 – 1953), anche se sia in Europa sia in Sud Korea sono ancora presenti consistenti forze americane, o con una exit strategy che formalmente “salvi le apparenze” agli occhi dell’opinione pubblica nazionale e internazionale, grazie anche a una opportuna narrativa, quale risultato di una proficua intesa negoziale con l’avversario.
Un disimpegno che è stato sostenuto anche dall’allora candidato democratico alla presidenza statunitense Joe Biden, il quale in una intervista alla CBS’ Face the Nation del 23 febbraio 2020 affermava che riteneva sufficiente a very small U.S. presence of several thousand people per impedire all’ISIS o al-Qaida di avere un “punto di appoggio” dal quale condurre attacchi contro gli Stati Uniti; non si riteneva, inoltre, responsabile se i Talebani avessero ripreso il controllo dell’Afghanistan dopo il ritiro americano.
Una tipica decisione dettata dalla realpolitik, secondo la quale l’unico obiettivo sensato della missione era ed è quello di contenere (ridurre) a livelli “minimi” la minaccia terroristica.
Ciò richiama alla memoria il ritiro degli Stati Uniti dal Vietnam, a seguito degli accordi di pace di Parigi del 21 gennaio 1973, che ha determinato due anni dopo la vittoria comunista (aprile 1975). All’epoca Henry Kissinger (Consigliere per la Sicurezza Nazionale), il negoziatore di Washington, aveva preteso un “intervallo decente” prima che il Vietnam del Sud cadesse in mani comuniste.
Più recentemente, ricorda il ritiro unilaterale voluto dal Presidente Obama dall’Iraq nel 2011, che ha lasciato il Paese in mano a un governo filo-iraniano ed ha creato le premesse per la nascita e l’ascesa dell’ISIS, costringendo gli USA a ritornare nella Regione pochi anni dopo.
In un contesto strategico globale, l’incapacità degli USA (e della NATO) di conseguire una vittoria decisiva in Afghanistan, in 20 anni di combattimenti, evidenzia i limiti sia dell’approccio militare occidentale sia della superiorità dei sistemi d’arma più avanzati, neutralizzati dai deserti rocciosi e dalle aspre montagne afghane, e può anche rappresentare, agli occhi degli avversari degli USA nel Medio Oriente (vds. Iran), il segnale che gli Stati Uniti cerchino di evitare conflitti in quella Regione.
Come avvenuto in Siria-Iraq dopo la sconfitta del califfato, il ritiro delle forze statunitensi è considerato un prezzo accettabile, anche nella considerazione che la lotta al terrorismo può essere condotta dal cielo con i drones e attraverso l’outsourcing, ricorrendo alle formazioni locali: un espediente sicuramente meno impegnativo e meno costoso.
I termini dell’accordo di Doha confermano questa tendenza, in quanto affiderebbero la missione USA di controterrorismo in Afghanistan ai Talebani, come affermato dallo stesso Presidente Trump: è ora che qualcun altro svolga questo lavoro e questi possono essere i Talebani.
Una soluzione già adottata nel 2014 dall’Amministrazione Obama che realizzò una – de facto – alleanza con l’Iran per combattere l’ISIS in Iraq, secondo il vecchio ma sempre valido detto che: il nemico del mio nemico è mio amico.
Rimane, di conseguenza, in sospeso l’opportunità di mantenere assetti dell’Operazione statunitense di controterrorismo Freedom’s Sentinel (soluzione già respinta dai negoziatori talebani) ed eventuali nuove forme di presenza dopo il ritiro dei contingenti della Risolute Support Mission (RSM).
L’intenzione di ricorrere ad interventi “a distanza” (over the horizon) per monitorare e colpire i terroristi mediante sorveglianza aerea, long-range strikes, drone armati e/o incursioni mirate di Forze Speciali provenienti dalla flotta nell’Oceano Indiano, risentirà sia del tempo necessario per i movimenti e della indisponibilità di temporanee basi di appoggio terrestri nella regione sia di una possibile riduzione della capacità di intelligence nel Paese. Possibilità di non facile soluzione per il rifiuto del Pakistan, che in passato aveva concesso basi per i droni, di autorizzare gli USA a disporre di punti di appoggio sul proprio territorio’’.

Quattro le missioni che si sono succedute nei venti anni di impegno in Afghanistan, ognuna delle quali comprendeva attività differenti … quali risultati?
‘’In Afghanistan si sono succedute in questi ultimi vent’anni quattro missioni:
- International Security Assistance Force (ISAF) dal 20 dicembre 2001 al 31 dicembre 2014;
- Resolute Support Mission (RSM) dal 1° gennaio 2015 ad oggi, in sostituzione di ISAF;
- Operation Enduring Freedom (OEF) dal 7 ottobre 2001 al 28 dicembre 2014;
- Operation Freedom's Sentinel (OFS) dal 29 dicembre 2014 ad oggi, in sostituzione di OEF.
L’ISAF, inizialmente sotto la guida – a turno – dei singoli membri della NATO, aveva il compito, su mandato delle Nazioni Unite, di assistere il governo afghano nel mantenimento della sicurezza, limitatamente all’area di Kabul e dintorni. La NATO ha preso il comando della forza nell'agosto 2003 e, sempre su mandato del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, ha esteso gradualmente le operazioni sull'intero Paese, passando da una missione di peacekeeping ad una combat.
L'ISAF è stata una delle più grandi coalizioni della storia; la missione più lunga e impegnativa della NATO fino ad oggi. Al suo apice, la forza consisteva in oltre 130.000 uomini e donne provenienti da 50 Nazioni dell’Alleanza e dei Paesi partner.
Nell'ambito dell'impegno globale della Comunità Internazionale, ISAF ha operato per assicurare le condizioni di stabilità affinché il governo afghano potesse esercitare la propria autorità in tutto il Paese, contribuendo così a migliorare la governance e lo sviluppo socio-economico della società.
Lo sforzo principale di ISAF, oltre a contrastare l’insurrezione talebana, è stato quello di costituire (da zero) le Forze di sicurezza nazionali afghane tramite la missione di addestramento NTM-A (NATO Training Mission Afghanistan di addestramento in Afghanistan).
Nel 2011 è stato avviato un graduale processo di transizione della responsabilità del controllo del territorio alle forze di sicurezza locali. Questo processo – noto come Inteqal in Dari e Pashtu – si è concluso nel dicembre 2014, quando la missione è terminata e le forze afghane hanno assunto la piena responsabilità della sicurezza della loro Nazione.
ISAF è stata sostituta il 1° gennaio 2015 dalla Missione “no-combat” Resolute Support, che aveva come focus la formazione, la consulenza e l’assistenza (Train, Advise and Assist) alle Afghan Security Institutions (Ministeri della Difesa e Interno) e alle Afghan National Defense Security Forces (ANDSF) a tutti i livelli di comando e d’impiego.
La Operation Enduring Freedom era un’operazione – a guida USA – lanciata nell’ottobre 2001 contro i Talebani, quale primo atto della guerra al terrorismo.
Il 28 Dicembre 2014, l'operazione Enduring Freedom in Afghanistan è stata sostituta dall'attuale missione contro il terrorismo Operation Freedom's Sentinel.
Queste due missioni hanno fatto in modo che le formazioni terroristiche nel Paese fossero e siano tuttora tenute sotto pressione, riducendone sensibilmente la libertà d’azione’’.

Abbandono del Paese quando non è stato raggiunto l’obiettivo di renderlo almeno stabilizzato: cosa comporterà per la popolazione?
‘’L’accordo non prevede nessuna garanzia di tutela dei diritti acquisiti in questi anni dalla popolazione civile e dalle donne soprattutto (uno dei motivi per cui gli USA hanno invaso l’Afghanistan nell’ottobre 2001), e di protezione delle ANDSF.
L’Afghanistan che i Talebani ambirebbero a governare è completamente diverso da quello che hanno lasciato nell’ottobre 2001. Il Paese, con grandi sacrifici e con un aiuto senza precedenti della Comunità Internazionale, ha fatto passi da gigante per recuperare gli effetti di oltre 40 anni di guerre. Un processo che richiede tempo e un cambio di mentalità – si spera – nelle nuove generazioni (condizione che ha interessato anche l’Europa dopo la seconda guerra mondiale).
Da sottolineare che oltre il 50% degli Afghani ha meno di trent’anni e non sa cosa voglia dire vivere in tempo pace.
Il sistema politico, pur con evidenti problematiche, ha intrapreso la via della democrazia (ancora con marcata fisionomia tribale) rafforzando lo stato di diritto, la lotta alla corruzione e il rispetto dei diritti umani, compresi quelli delle donne. Conseguentemente, anche le aspettative e le richieste degli Afghani sono cambiate.
Il timore per il futuro è molto sentito (e sofferto), soprattutto nelle popolazioni urbane (le più occidentalizzate), circa il comportamento dei Talebani una volta che avranno verosimilmente riguadagnato il potere, tenuto conto che nelle aree sotto il loro controllo sono stati ripristinati i rigidi principi nei comportamenti imposti nel periodo del loro breve governo (1996 – 2001).
Secondo il sondaggio dell’Asia Foundation effettuato nel novembre 2019, su di un campione di circa 130.000 persone, oltre l’85% degli intervistati non ha simpatia per i Talebani (88,6% nei centri urbani e 83,9% nelle campagne); solo un 6% avrebbe piena propensione per il loro sistema politico.
Il governo afghano ha messo in atto misure straordinarie nella lotta alla corruzione per arginare questo fenomeno che rappresenta – da sempre – un malcostume endemico in tutti gli strati della società (“modello relazionale” non percepito, sino ad un certo limite, come un aspetto negativo da contrastare) e un rischio significativo per la stabilità del Paese, in quanto inficia, inevitabilmente, la fiducia nell’apparato istituzionale da parte della popolazione e l’immagine stessa dell’Afghanistan agli occhi dei partner internazionali.
Un problema dovuto anche alla Comunità Internazionale che non sempre ha controllato (o inteso controllare) la destinazione, gestione e impiego dei fondi e la distribuzione degli aiuti (situazione purtroppo ricorrente in tale tipologia di missioni).
Resta da capire cosa ne sarà del rispetto dei diritti conseguiti dai cittadini afghani e delle faticose conquiste democratiche ottenute in questi ultimi 20 anni e, in particolare, del ruolo sociale delle donne. Le donne, che in questi anni sono state sempre più presenti nella vita pubblica e privata afghana, rischiano di essere le grandi perdenti dell’accordo di Doha e ritornare ad essere virtualmente cancellate dalla società.
Nel 2019, il 28% dei parlamentari erano composto da donne, una percentuale superiore a quella presente nel 67% dei Paesi analizzati dalla World Bank.
Rimane, inoltre, il dubbio circa il trattamento degli Afghani (e loro famiglie) che hanno collaborato e combattuto con le forze multinazionali, anche se il leader dei Talebani afghani, il Mullah Haibatullah Akhunzada, ha offerto ai rappresentanti istituzionali, militari, poliziotti e altri avversari una “generale amnistia”, se rinunciano alla loro ostilità, e non essere un “impedimento all’instaurazione di un governo islamico”. Proclami sibillini che non chiariscono e, soprattutto, non garantiscono il futuro per i nemici.
A ciò, si deve aggiungere la situazione di migliaia di local workers, e rispettive famiglie, che prestano da anni la propria opera in qualità d’interpreti, mediatori culturali (gli occhi e le orecchie dei contingenti), guardie, personale amministrativo, addetti alle pulizie presso i contingenti multinazionali, i quali rischiano anche di essere eliminati in quanto considerati traditori o collaboratori dai terroristi e dagli insorti. Nel documentario di Ben Anderson del 2014, The Interpreters, che narra di queste persone abbandonate, il cosiddetto portavoce ufficiale dei Talebani, Zabihullah Mujahid, affermava che ”tutti coloro che proteggono o supportano i contingenti stranieri come traduttori e interpreti sono dei veri e propri traditori, degli infedeli, e per questo saranno puniti con la morte”.
Tale prospettiva ha fatto si che tutti i contingenti della Colazione, Italia compresa, stiano procedendo per porre in salvo questo personale trasferendolo nei Paesi di provenienza; un’operazione complessa resa ancora più complicata dai ristretti tempi a disposizione per l’annuncio del repentino ritiro delle forze statunitensi (e di conseguenza di tutte le altre) da parte del Presidente Joe Biden.
I Talebani nei giorni passati, con un messaggio sul sito web del cosiddetto Emirato Islamico dell’Afghanistan, hanno affermato che questi collaboratori delle forze straniere non incorreranno in nessuna vendetta, se si pentiranno per le loro azioni del passato. Un invito che comunque non trova seguito da parte degli interessati; anzi, più si avvicina il giorno ultimo del ritiro dei contingenti, più si diffonde il forte timore per il loro futuro.
L’eventuale ritorno dei Talebani rischia, infine, di provocare un ulteriore flusso di rifugiati, in aggiunta ai 5 milioni già sfollati nei 40 anni di confitti, nel timore del ripristino di un regime repressivo, soprattutto per le popolazioni sciite come gli Hazara, perseguitate duramente nel periodo in cui sono stati al potere.
Dopo la caduta di Saigon (1975), a causa della dura repressione del regime comunista di Hanoi, decine di migliaia di vietnamiti (cd. boat people) – si stima 800.000 – cercarono di fuggire dal Paese, come era già avvenuto nel 1954 – 1955, dopo la divisione dell’Indocina in due Stati, quando migliaia di vietnamiti cattolici del Nord cercarono rifugio al Sud per non subire il regime comunista’’.

All’opinione pubblica tale decisione appare come una sconfitta… secondo lei?
‘’La conclusione di una missione internazionale, senza che abbia raggiunto gli obiettivi prefissati, è sempre oggetto di polemiche e critiche in quanto è considerata un inutile spreco di vite umane e di risorse economiche (vds. Op. UNOSOM in Somalia 1992 – 1995) se non un ulteriore problema per la stabilità regionale (vds. l’attacco alla Libia di Gheddafi nel 2011).
Il ritiro dall’Afghanistan nelle condizioni previste dall’accordo di Doha appare una sconfitta politica, e non militare, di tutta la Comunità Internazionale e di ogni Nazione che ha partecipato alla missione. L’esperienza storica insegna che la pacificazione di un Paese o di una regione comporta tempi lunghi (almeno 2-3 generazioni) e misure finalizzate.
Gli USA e le Nazioni europee hanno “dipinto” questa decisione con toni e motivazioni estremamente positivi (“decisione epocale per la NATO” secondo il nostro Ministro del MAECI) ignorando gli sviluppi negativi che si registrano nel Paese. Il provvedimento del ritiro, a mio avviso, non può essere considerato un successo (senza parlare di vittoria): basta leggere le cronache attuali!
Da mesi i quadri intermedi delle istituzioni locali (insegnanti, funzionari amministrativi, capi villaggio, media, ecc.) sono sistematicamente eliminati per creare un “vuoto” di interazione tra le strutture statali e la popolazione, secondo il modello insurrezionale previsto dalla Guerra Rivoluzionaria di Mao Zedong (On Guerrilla Warfare), che viene occupato da elementi delle formazioni terroristiche.
Sono aumentati gli attacchi contro le forze di sicurezza mano a mano che le guarnigioni della NATO vengono ritirate dal territorio afghano.
Il recente attentato a Kabul (8 maggio 2021) che ha provocato la morte di almeno 85 studentesse della minoranza Hazara (Sciiti) conferma in modo più che evidente che il Paese è ben lontano da essere pacificato (il 12 maggio 2020 era avvenuto un altro terribile attentato alla clinica di ostetricia nel quartiere a maggioranza Hazara della Capitale, non rivendicato per la crudeltà dell’atto).
Il Press Briefings della Casa Bianca tenutosi il 13 aprile 2021 per illustrare compiutamente le ragioni di questo ritiro repentino senza condizioni (The Background Press Call by a Senior Administration Official on Afghanistan) è un capolavoro di ipocrisia mediatica che meriterebbe di essere studiato all’università per la capacità di giustificare come un successo il mancato raggiungimento degli obiettivi dell’impegno internazionale.
Non appare infatti verosimile che futuri attacchi terroristici agli Stati Uniti possano essere concepiti e/o portati dall’Afghanistan come nel 2001.
Oggi il terrorismo jihadista, rappresentato principalmente dall’ISIS e da al-Qaida, si basa su di un network internazionale di formazioni affiliate che possono agire e colpire sulla base delle loro indicazioni.
I terroristi oggi si trovano già sul continente americano ed hanno una delle loro principali basi nell’area tri-confinaria di Argentina-Paraguay-Brasile, caratterizzata da un’intensa attività di traffici illegali da parte della criminalità organizzata (locale e internazionale) e dalla presenza di cellule “dormienti” di gruppi terroristi islamisti (Hamas, ISIS, Hisballah, al-Qaida) per l’esistenza di una storica e numerosa comunità musulmana.
Il ripiegamento dei contingenti stranieri senza aver stabilizzato il Paese, in un momento in cui gli insorti sono presenti o controllano una parte del territorio può apparire come una sconfitta nella Global War On Terror (GWOT), contraddicendo le affermazioni del Presidente George W. Bush dell’11 ottobre 2001, all’avvio dell’Operazione Enduring Freedom: “The attack took place on American soil, but it was an attack on the heart and soul of the civilized world. And the world has come together to fight a new and different war, the first, and we hope the only one, of the 21st century. A war against all those who seek to export terror, and a war against those governments that support or shelter them”.
Si tratta di un ulteriore duro colpo alla credibilità americana a livello mondiale, già minata con l’abbandono dei Curdi, con l’indebolimento delle sue capacità di deterrenza e della volontà di sostenere i Paesi alleati in difficoltà: nessuna Nazione potrà più fidarsi completamente degli USA (Taiwan avvisata!).
Un “futuro” che assomiglia sempre più a un ritorno alla situazione antecedente l’intervento dell’ottobre 2001: un santuario dell’Islam radicale e terroristico.
Dato per scontato che la pace si fa con il nemico (e non con l’amico) e che prima o poi si deve tornare a convivere con chi si è fatta la guerra (vds. Stati Uniti con il Vietnam), sarebbe stato più opportuno trattare da una posizione di forza per ottenere migliori condizioni dall’accordo.
L’invio dei contingenti militari avrebbe richiesto, inoltre, un disegno politico ampio e condiviso che non sempre si è verificato per la prevalenza degli interessi e priorità nazionali o di parte.
Nella storia la strategia vincente è sempre stata quella che ha saputo combinare rapporti di forza favorevoli con un’accorta azione politico-diplomatica.
I sanguinosi attentati ai danni della popolazione in diverse località del Paese, l’incremento degli attacchi alle forze di sicurezza (aumentati del 37% nel primo trimestre di quest’anno rispetto al 2020), unitamente al ripiegamento delle forze straniere, rischiano di provocare una “guerra civile totale” che può indurre i principali attori regionali (Cina, Pakistan, Iran e India), alcuni dei quali con capacità nucleare, ad intervenire direttamente nel conflitto in supporto di uno o più dei contendenti dopo il ritiro statunitense. Uno scenario che potrebbe destabilizzare l’intera Asia Centrale, anche per il tentativo dell’ISIS di utilizzare il territorio afghano quale base per espandere il terrorismo in tutta la regione avvalendosi dell’alleanza con i gruppi jihadisti presenti.
Recenti informazioni riportano, inoltre, che i Talebani incontrerebbero forti resistenze da parte delle etnie del Nord (uzbeki e tagiki) e del Centro (hazara), che sono pari a oltre il 50% della popolazione, che si stanno organizzando per essere pronte a combattere per difendere la loro libertà.
A prescindere da qualsiasi intesa che potrà essere o meno raggiunta tra il Governo afghano e i Talebani, uno dei più grandi rischi conseguenti al ritiro dei contingenti è la perdita d’interesse per l’Afghanistan da parte della Comunità Internazionale.
L’accordo di Doha dovrebbe, invece, aumentare la responsabilità nei confronti della società afghana dei principali attori del conflitto, gli USA in primis, che dovranno dimostrare che l’intesa non è una abdicazione alle proprie responsabilità (tenuto conto che sono stati loro a provocare questa situazione).
La Comunità Internazionale deve rimanere pienamente focalizzata sul Paese per evitare quello che è avvenuto con il ritiro dei Sovietici nel febbraio 1989, che ha creato le premesse per l’affermazione dei Talebani e i presupposti per gli attentati dell’11 settembre (la storia dovrebbe essere d’insegnamento).
Deve essere pianificato il day after (da chi?) e definire come sarà possibile aiutare la transizione post – war dell’Afghanistan.
I Talebani, interessati ai contribuiti economici degli USA e di altri Stati e Organizzazioni internazionali hanno affermato, attraverso alcuni loro esponenti, di non voler “prendere” il completo potere in Afghanistan e di considerare possibile una rinuncia alle proibizioni più assurde, soprattutto nei confronti delle donne, anche se hanno comunque chiarito l’intenzione di rivedere i principi costituzionali. Dichiarazioni, peraltro, che sono in contrasto con le asserzioni di altri rappresentanti degli “studenti coranici” che richiamano l’applicazione rigida della sharia.
In questo tentativo di presentarsi come una forza politica moderata si sono spinti sino a voler rispettare il diritto all’istruzione delle ragazze. Tutte “buone intenzioni” che non trovano riscontro con il loro tragico passato e con le realtà attuali nelle aree da loro occupate.
Come avvenuto recentemente in Iraq, un totale abbandono del Paese può provocare il ritorno, tra alcuni anni se non prima, delle forze multinazionali per prevenire l’affermazione di un nuovo califfato e per contrastare la produzione della droga (il 90% a livello mondiale proviene dall’Afghanistan).
L’Afghanistan ha sofferto negli ultimi decenni gli effetti della concomitante presenza di tre destabilizzanti fattori tra loro strettamente interconnessi: il terrorismo, la droga e la corruzione. La droga è l’elemento catalizzatore di questa tragica realtà’’.

Il contributo da parte dell’Italia in Afghanistan dove sono morti 53 nostri soldati potrebbe essere considerato ‘’un atto sprecato’’?
‘’L’impegno internazionale, come quello italiano, non è stato del tutto superfluo, anche se non ha soddisfatto tutte le aspettative, forse troppo ambiziose e non sempre pertinenti, da parte della Comunità Internazionale.
In questi vent’anni, la società afghana, pur con mille difficoltà, si è sviluppata in tutti i settori, tenendo anche conto delle condizioni del 2001. Un processo visibile e inconfutabile che difficilmente potrà essere represso del tutto. Cito solo alcuni dati.
Oltre 9 milioni di bambini vanno attualmente alle scuole elementari (40% ragazze – 3,5 milioni); 300.000 studenti frequentano l’università (100.000 ragazze), nonostante il numero e la frequenza degli attacchi terroristici in tutto il Paese rivolti alle scuole, insegnanti e studenti; gli attacchi e le minacce condizionano tuttavia sempre di più la frequenza scolastica (3,7 milioni di ragazzi non possono andare a scuola e di questi oltre il 60% sono ragazze).
In questi anni sono stati costruiti 4.500 edifici scolastici e formati più di 200.000 insegnanti dei quali oltre il 30% donne. Nel 2001 solo 1 milione di ragazzi (e poche migliaia di ragazze) si recavano a scuola.
L’80% della popolazione possiede un cellulare; il 66% un televisore e il 18% usa internet, con maggiore sviluppo nella regione centrale di Kabul (26%), nel sud-est (18%). Sono attive 45 stazioni radio, 75 canali televisivi, agenzie di stampa e centinaia di pubblicazioni, inclusi 7 quotidiani.
A Kabul sono presenti 16 istituti bancari.
Sono state costruite oltre 33.000 km di strade asfaltate (2.500 km nel 2001), la più importante autostrada del Paese, la cosiddetta Highway 1 o Ring Road, che unisce le grandi città di Mazar-e Sharif, Kabul, Ghazni, Kandahar e Herat è completata al 90%.
Anche il settore della salute pubblica ha visto un sensibile miglioramento negli ultimi anni. Circa il 90% della popolazione ha accesso all'assistenza sanitaria di base, a fronte del solo 9% nel 2001.
La mortalità materna è diminuita del 15% e quella infantile del 35%, grazie anche alle circa 1.700 ostetriche professionali che forniscono assistenza al parto.
Oltre il 61% della popolazione ha accesso all’acqua potabile.
Un grande risultato è stato soprattutto raggiunto: far conoscere agli Afghani, e ai giovani in particolare (oltre il 50% della popolazione ha meno di trent’anni), altre realtà socio-culturali che possano offrire, se non modelli di riferimento, esempi e stimoli per lottare per la propria libertà e democrazia.’’

Si parla ora di impegnare risorse in missioni in Africa, Mali, Sahel, Corno d’Africa...Quanto importanti sono per l’Italia tali luoghi?
‘’La situazione africana è fonte di continue crisi per la forte crescita demografica, i cambiamenti climatici, il moltiplicarsi degli Stati sull’orlo del fallimento e ora anche la pandemia, che sono causa dello sviluppo del terrorismo islamico, di flussi migratori incontrollati e di vasti traffici illeciti.
Sono fenomeni che incrociandosi con i fattori d’instabilità (ripercussioni delle primavere arabe, conflitti in Siria-Iraq, Libia, Yemen) generano avvenimenti esterni che finiscono per ripercuotersi anche all'interno dei nostri confini, con situazioni sempre più complesse e non più chiaramente delineabili.
L’Europa e l’Italia non possono semplicemente isolarsi dalla sponda sud del Mediterraneo ritenendo di evitare i problemi che provengono dall’Africa, ma devono assumere un ruolo attivo con tutti gli strumenti a loro disposizione (diplomatico, umanitario, informativo, militare, economico e tecnologico).
Sia il Presidente Trump, prima, sia il Presidente Biden, ora, hanno apertamente dichiarato che le priorità statunitensi sono altre e si identificano nell’avversario di sempre, la Russia, e nel contenimento della Cina nell’Indo-Pacifico.
Ad alimentare questa instabilità contribuiscono crisi antiche e nuovi interessi geopolitici che compromettono l’attuale ordine internazionale da parte di potenze mondiali come la Russia e la Cina o regionali come la Turchia, che agiscono con spregiudicatezza e assertività, impiegando tutti i mezzi a loro disposizione.
Si tratta di vasta area che si estende dal Golfo di Guinea all’Oceano Indiano e che vede nel Sahel l’epicentro di questa situazione per la presenza di un movimento fondamentalista in forte espansione e sempre più aggressivo.
Il jihadismo saheliano non è simile a quello siriano o afghano, è una letale combinazione di terrorismo e insorgenza, economia criminale e contrabbando, contrasti etnici e tribali, che sfruttano la debolezza e gli abusi dei regimi locali.
Uno scenario di oltre 6.000 km dove operano già diversi contingenti occidentali sotto egida francese (peraltro, in fase di ridimensionamento), delle Nazioni Unite, dell’Unione Europea e dei Paesi del G5 Sahel.
Il “fronte sud” risulta essere, senza ombra di dubbio, quello principale per l’Italia, prolungamento e frontiera avanzata dell’Europa e della NATO verso il continente africano, per la salvaguardia dei propri interessi nazionali, quale condizione di stabilità e di sicurezza per il nostro Paese.
L’Italia è il punto di arrivo (e d’ingresso nel Vecchio Continente) del flusso energetico e commerciale tra Europa e Asia, di pipeline provenienti dal Nord Africa e dall’Asia e delle linee di comunicazione marittime, porti e altre infrastrutture critiche di valenza regionale, come dimostra anche l’ambizioso progetto cinese della “Via della Seta”.
La “chiusura” della missione in Afghanistan consentirà di focalizzare l’attenzione e le risorse verso l’Africa, dove il nostro Paese è già comunque presente con un significativo dispiegamento militare navale e terrestre.
Si tratta di impegnarsi da protagonista (e non di comparsa) con una credibile dimensione regionale, avendo ben chiari gli obiettivi, armonizzati nel contesto multilaterale delle alleanze (NATO e UE), da cui deve discendere la strategia da seguire e le risorse necessarie; gli interlocutori con cui dialogare, a livello sia locale sia internazionale; progetti (mirati) di distribuzione di risorse economiche.
Non si può essere amici di tutti e nemici di nessuno.
Il nostro Paese deve, inoltre, prendere in considerazione la volontà di impiegare lo strumento militare come mezzo della propria politica estera, abbandonando il consueto ritornello “no a soluzioni militari” e attendere gli eventi per prendere parte a eventuali negoziati, da cui si è peraltro sovente esclusi.
Il recente conflitto nel Nagorno-Karabakh (settembre – novembre 2020) ha dimostrato, ancora una volta, che la diplomazia funziona soltanto se la negoziazione avviene da posizioni di forza – conseguite anche con le “baionette” – per ottenere condizioni migliori nelle trattative, ed ha rivalutato il ruolo delle Forze Armate che sono tornate ad essere uno strumento decisivo per ottenere il “cessate il fuoco”.
La prossima partecipazione italiana all’operazione multinazionale a guida francese “Takuba” di supporto alle forze maliane nel contrasto alle formazioni jihadiste nel Sahel è sicuramente una iniziativa che aumenterà la nostra credibilità in ambito internazionale al pari della Francia e della Gran Bretagna’’.

Ma secondo Lei, la NATO manterrà ferma la decisione del ritiro dall’Afghanistan? Potrebbe ripensarci?
‘’La missione Resolute Support, analogamente alla precedente ISAF, è un’operazione NATO e come tale il ritiro dei contingenti (erano 39 a febbraio 2021 di varia consistenza) avviene secondo il principio all together in & all together out (ribadito anche dal Segretario Generale dell’Alleanza Atlantica). Del resto non potrebbe essere diversamente. Gli USA sono (o erano) la Lead Nation della Coalizione, hanno condotto le trattative di Doha e deciso per conto della NATO e, di conseguenza, di tutti i Paesi coinvolti; essi assicurano, o assicuravano, la direzione, il supporto aerotattico e l’intelligence alla missione.
I contingenti hanno iniziato a ritirarsi, secondo tempistiche nazionali, in previsione di terminare l’operazione entro i primi giorni di luglio 2021.
Gli interessi dei Paesi della Coalizione sono ora diversi, a seconda delle valutazioni nazionali e delle relative priorità geostrategiche: Europa Orientale, Artico, Indo-Pacifico, Africa, ecc..
L’unica Nazione che potrebbe prolungare la propria presenza (ma il condizionale è d’obbligo) è la Turchia per continuare a presidiare l’aeroporto internazionale di Kabul, unico punto d’ingresso e di uscita per il personale diplomatico dal Paese. La Turchia è un Paese musulmano sunnita al pari dei Talebani (la loro ambasciata non ha subito danni o distruzioni durante il regime degli studenti islamici).
Il Summit dei Capi di Stato e di Governo dei Paesi NATO tenutosi a Brussels il 14 giugno 2021 ha affermato, tra l’altro, che l’Alleanza continuerà a supportare l’Afghanistan continuando sia a finanziare le forze di sicurezza sia ad addestrarle all’estero.
Spero vivamente che dopo qualche mese, come è capitato con i Sovietici, non rimanga solo un intendimento.
Nella narrativa talebana l’11 settembre 2021 (ultimo giorno del ritiro delle presenze straniere) sarà una data simbolica da celebrare due volte: i vent’anni degli attentati alle “due torri” e la sconfitta degli USA sul campo.
Un evento che verrà enfatizzato dalla jihad transnazionale per rimarcare la debolezza dell’Occidente.
Altro che decisione epocale per la NATO”!

NOTE bibliografiche
1 The New York Times, What We, the Taliban, Want, February 20, 2020.
2 B. Roggio, Taliban emir demands ‘Islamic government for Afghanistan’, Long War Journal, May 21, 2020. Ariana News, Taliban leader says group is on the verge of establishing “pure Islamic government”, 28 July 2020.
3 D. Petraeus and V. Serchuk: The U.S. Abandoned Iraq. Don’t Repeat History in Afghanistan, The Wall Street Journal, 4 Aug. 9, 2019; Ariana News, Trump was ‘absolutely wrong’ to negotiate with Taliban: McMaster, 29 September 2020.
4 J. Seldin, Top Commander Doubts Afghan Taliban Commitment to Peace, Global Security.org, March 12, 2020.
5 B. Roggio, CENTCOM commander wrongly suggest ‘splinter’ Taliban group carrying out number of attacks in Afghanistan, Long War Journal, March 17, 2020.
6 D. Petreus and V. Serchuk, The U.S. Abandoned Iraq. Don’t Repeat History in Afghanistan, The Wall Street Journal, Aug. 9, 2019.
7 Letter dated 26 June 2020 from the Analytical Support and Sanctions Monitoring Team in accordance with paragraph (a) of annex I to resolution 2368 (2017) addressed to the Chair of the Security Council Committee pursuant to resolutions 1267 (1999), 1989 (2011) and 2253 (2015) concerning Islamic State in Iraq and the Levant (Da’esh), Al-Qaida and associated individuals, groups, undertakings and entities.
8 W. Ruger, Why Americans Want a President Who End Endless Wars, The National Interest, 17 August 2020. D.
9 Lamothe, Marine Corps mourns 9 service members in deadliest incident at sea in years, The Washington Post, 3 August 2020.
10 Congressional Research Service, Trends in Active-Duty Military Deaths Since 2006, July, 2020.
11 M. Hastings, Vietnam, Neri Pozza, Vicenza, 2019, p. 679, 722, 725.
12 BBC News: Afghan conflict: US and Taliban sign deal to end 18-year war, 29 Feb 2020.
13 J.P. Lawrence, Taliban unlikely to support keeping US Counterterrorism in Afghanistan, analysts say, Stars
and Stripes, 12 August 2020.
14 L. C. Baldor, Top US general in the Mideast to recommend post-withdrawal plan for Afghanistan, The
Associated Press, May 19, 2021.
15 K. Gannon, Taliban warns departing US military against new bases in region, The Associated Press, May 27,
2021.
16 Operation Enduring Freedom era il nome stabilito da Washington per tutte le campagne condotte contro il terrorismo islamico nel mondo dopo gli attentati dell'11 settembre 2001: OEF-P (Filippine – già Freedom
Eagle) e OEF-HOA (Corno d'Africa).
17  M. Mashal, Vicini al Traguardo, Internazionale 1363, 19 giugno 2020. 

18  H. R. Taseer and A. Siddique, Taliban Ban Music, Mobile Phone in Restive Afghan Province, Gandhara 
RFE/RL, 4 August 2020; Khaama Press, Female Students in Badakhshan could not attend university entrance test due to Taliban threats, 21 August 2020.
19  The Asia Foundation, A Survey of the Afghan People – Afghanistan 2019, November 2019. 

20  Y. Zarifi, After US forces exit, residents fear Taliban return, Pajhwok Afghan News, 5 August 2020. 

21 The Word Bank, Proportion of seats held by women in national parliaments, 2019. 22
Haibatullah said, B. Roggio, Taliban emir demands ‘Islamic government for Afghanistan’, Long War Journal, May 21, 2020.
22 We are offering general amnesty to all those standing in the opposition ranks if they choose to renounce their enmity. We urge everyone to take full advantage of this amnesty by ending their opposition and not
becoming an impediment for the establishment of an Islamic government...,
23 B. Anderson, The Interpreters, documentario, Vice News, 2014.
24 Nel 1979 la Marina Militare italiana ha condotto un’operazione di recupero di circa 900 boat people nel Mar
della Cina Meridionale.
25 M. Mashal and F. Abed, Deadly Attacks Hit Afghan Maternity Clinic and Funeral Ceremony, The New York
Times 12 May 2020.
26 L'attacco ebbe luogo sul suolo americano ma fu un attacco al cuore e all'anima del mondo civilizzato. E il mondo si è unito per combattere una nuova e diversa guerra, la prima, e speriamo l'unica, del 21° secolo. Una guerra contro tutti coloro che cercano di esportare il terrore e una guerra contro quei governi che li
sostengono o li proteggono.
27 W. Sabawoon, Taliban ramped up attacks against Afghans as peace talks faltered, Pentagon watchdog says, NBC News, May 19, 2021.
28 H. McKay, As the US move out of Afghanistan, Iran cements ties with Taliban and officials, Fox News, 12 August 2020.
29 A. Nossitar, In Taliban-Controlled Areas, Girls Are Fleeing for One Thing: an Education, The New York Times,
2021/05/17.
30 S. Gollob & M. E. O’Hanlon, Afghanistan Index, Brooking, August 2020.
31 USAID, Education, September 10, 2019.
32 A. Gul, Millions of Afghan Children Out of School; Ghani Faces Backlash Over Disputed Remarks, Voice of
America, 4 October 2020.
Maria Clara Mussa


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