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foto di: archivio cybernaua
Suicidi in uniforme…
Qualche considerazione del generale Carmelo Burgio
18-05-2024 - Ho letto con attenzione i tanti spunti di riflessione su questo tristissimo fenomeno, e credo che, forse, esso andrebbe analizzato compiutamente, al netto di preconcetti e, soprattutto, di banalità, di cui tanti ben informati son dispensatori generosi.
Premetto, onde evitare misunderstanding, che episodi come quello accaduto recentemente alla Scuola Marescialli di Firenze lasciano un segno indelebile su comandanti, commilitoni e colleghi. Che alla famiglia va tutta la comprensione e l’affetto. Che per chi è intervenuto in tali frangenti resterà per sempre il senso di colpa, irrisolto e irrisolvibile, del perché non si siano percepiti segnali premonitori.

Il guaio è che spesso ci si trova a rilevare che nessuno, fra coloro che circondavano l’autore del gesto, aveva avuto modo di percepire alcunché.
Purtroppo c’è chi interviene sui media col solo fine, tipicamente nazionale, di dare addosso alle istituzioni che vestono un’uniforme, a volte per capitalizzare facili consensi di chi già orientato a sfavore è. Come c’è chi la butta sull’ovvietà: sui controlli interni da migliorare, sulla disciplina da ammorbidire, sulla selezione da aggiornare.
Per rispondere a costoro credo sia fondamentale argomentare, da parte delle istituzioni, che occorra un’analisi dei casi, uno per uno.

Bene, piaccia o no, la più parte presentano cause scatenanti riconducibili alla sfera privata: amori finiti, crisi coniugali o di coppia, solitudine, persino attriti coi genitori, e a volte anche conclamate situazioni di disagio mentale.
Per esperienza, i casi in cui il servizio abbia inciso sono residuali. Non son io comunque a dirlo, ma gli studi effettuati da decenni dalle diverse amministrazioni. Coerenti peraltro con analoghi condotti presso forze armate di altri Paesi. Fra questi i casi di omicidio-suicidio di protagonisti di patologico rapporto gerarchico, in cui non sempre i testimoni terzi della vicenda hanno potuto sostenere che le responsabilità dell’esplosione di violenza fossero del superiore. Perché è luogo comune ritenere che sia sempre l’inferiore ad essere vessato, ma nella vita reale capita a volte di dover gestire dipendente assolutamente refrattario a collaborare e svolgere il proprio dovere, inviso all’intera compagine.

Il tutto è aggravato dal fatto che – almeno per gli appartenenti alle forze dell’ordine, la pistola sia a portata di mano. C’è chi dice che vada distribuita solo per il servizio. Altra fesseria. Agente e ufficiale di PG e PS devono poter intervenire anche fuori servizio, a tutela e difesa dei cittadini che pagano per loro le tasse.
Casi in cui mobbing o – comunque – illecita condotta vessatoria dei superiori, abbiano causato l’evento luttuoso, nella mia vita militare non ne ho incontrati, anche se non escludo che vi siano stati.

Peraltro, da tempo, il “nonnismo” o la prevaricazione gratuita sono rigorosamente sanzionati dalle amministrazioni del “comparto sicurezza”. Posso sostenere serenamente che, alla luce del fenomeno generale, tali casi censurabili sono residuali ancorchè, ove accertati, da condannare. Se ci si affida al dato statistico non ci si suicida per eccessiva pressione dei superiori o degli istruttori. Ciò non vuol dire che non possa essere accaduto, e – onde evitare facili polemiche – ribadisco che ciò non sia tollerabile. L’assiduo controllo del superiore dei due in frizione deve consentire l’immediata interruzione del rapporto malato, col trasferimento – anche nella stessa sede – di uno o entrambi gl’interessati per eliminare il luogo del contendere. Al riguardo la normativa esiste e i poteri anche, basta utilizzare la prima e esercitare i secondi

Rimane da discutere degli episodi in cui si verifica il cedimento di un giovane allievo. Perché di “cedimento” ritengo si possa parlare. Una persona, soprattutto un giovane pieno di vita e speranze, non può non aver chiaro che il proprio gesto estremo costituirà dolore irrisolvibile per la catena di relazioni, affettive e umane, che lo circonda. Che uccidendosi non risolverà alcun problema, ma ne creerà ai propri cari, che ama. Se vi fa ricorso, pertanto, non può che ipotizzarsi un momento in cui la lucidità è stata fortemente compromessa da una sorta di black out. Solo se si ha a che fare con persona disturbata da sindrome auto-distruttiva o auto-punitiva, magari vittima di depressione, si può rilevare un disegno articolato e protratto nel tempo, ma la rigorosa selezione psico-attitudinale serve proprio per individuare certe deviazioni da uno standard accettabile. E attribuire una “non idoneità”. L’immersione del soggetto in un reparto consente agevolmente di rilevare che vi sia qualcosa che non va. Non è casuale che tale ipotesi, teoricamente possibile, ai fini pratici sia difficilissima a verificarsi.

Su questo “cedimento”, quindi, occorre concentrarsi e trovare una spiegazione.
Sostanzialmente ipotizzo che un evento così doloroso possa essere ascritto a situazioni che vanno dalla semplice delusione per un mondo cui si aspirava, ma che non riveste più per l’interessato l’appeal iniziale, all’incapacità di sostenere elevati ritmi di lavoro e stress da disciplina. In un istituto di formazione tempo libero ve ne è poco e la giornata è scandita da attività continue, che creano una sorta di frequente “debito d’ossigeno”.
Accanto a tale considerazione emerge che il cedimento è comunque episodico, e coinvolge casi circoscritti. Ovvero che decine, a volte centinaia di colleghi, superano le condizioni di stress propinate dal personale d’inquadramento.
Troppo semplice replicare che vi sia stato un errore nella fase di selezione, non escludendo per tempo un candidato più fragile del dovuto. Per quanto si voglia essere attenti, non c’è psicologo che possa sostenere che sia rilevabile in quella sede qualsivoglia carenza che potrebbe portare a tale collasso.

Fuorviante pensare che l’allievo non sia stato seguito: in quel contesto il giovane non vive mai isolato. Al limite gli manca la privacy, fra colleghi di corso e quadro permanente che lo circondano per l’intero arco della giornata. Il guaio, purtroppo, sta nel timore dell’esclusione, che fa rifiutare di chiedere aiuto allo psicologo, oggi presente nelle strutture del comparto sicurezza, e porta a mascherare la fatica di sostenere quei ritmi. Ma anche questo è una sorta di cane che si morde la coda: come si fa a non allontanare dalla struttura di sicurezza chi un giorno potrebbe avere nelle proprie mani la vita di colleghi e civili, e denuncia situazioni di minore tenuta psico-fisica? Se non altro – una volta che il giovanotto ha combinato il guaio – per le responsabilità che ricadono su chi, consapevole della carenza, per pietà, bonomia, faciloneria o … interventi esterni .. ha deciso di far finta di nulla e fargli avere alamari o fiamme.
Va poi risolto il dilemma se sia o meno opportuno sottoporre un allievo a condizioni di stress eccedenti la norma delle esperienze sinora vissute nella vita civile.

Preliminarmente il nostro teen-ager, oggi, nella sua fase formativa, è meno soggetto a condizioni di disagio e a sottoposizione a disciplina. Una volta famiglia, scuola, mondo del lavoro in cui spesso s’immergeva adolescente dopo la 3^ media, lo abituavano ad un livello di costrizione sicuramente superiore a quella attuale. A chi oggi sbrigativamente dice che a tanti giovani farebbe bene la vecchia naja, dico che questa giungeva dopo una corale e coerente azione d’inquadramento svolta a casa, all’asilo, a scuola, e persino in officina o nei campi. Oggi forse aumenteremmo solo i casi di suicidio in uniforme, prendendo il nostro giovanotto e spedendolo in una caserma, dopo le maniere senz’altro più comprensive di mamme, nonne, maestri e professori.

Il/la giovane è meno preparato all’impatto col mondo che forma per accedere al “comparto sicurezza”. Vanno aboliti tali metodi sbrigativi, ispirati a rigore, a volte anche apparentemente inutile e pretestuoso? Dobbiamo riprodurre in caserma l’atmosfera più rilassata di casa o scuola?
Prima di rispondere credo sia opportuno capire a cosa servano e se servono questi metodi troppo sbrigativamente definiti “da marines”, da gente che in una scuola dei Marines degli Stati Uniti mai c’è mai entrata, ma a dire una banalità, oggi, non costa nulla.
Il nostro allievo, uomo o donna che sia, dovremmo rammentare che deve essere preparato, in relazione alla scuola in cui è stato ammesso, a combattere una guerra, a partecipare ad operazioni di ordine pubblico sovente d’inaudita violenza, al servizio d’istituto che ad esempio, a bordo di una vettura di un reparto “radiomobile” o “volante”, gli può richiedere in un turno anche 20 interventi, fra risse, ubriachi o tossicodipendenti in crisi da tranquillizzare, liti in famiglia, piccoli e gravi reati. In tali scenari giustamente vogliamo da lui equilibrio, ovvero capacità di ragionare a mente fredda ricercando la situazione migliore, limitando al minimo l’impiego della violenza, evitando la reazione incontrollata e sconsiderata.

L’addestramento serve a padroneggiare le tecniche d’intervento, ma se un individuo ha la tendenza a perdere la lucidità, a fuggire, o a aggredire in modo esagerato, credo sia pacifico sostenere che vada allontanato per inidoneità. Come si rileva tale carenza, se non sottoponendo l’allievo ad un eccesso di stress e verificando se lo riesce a gestire? E se oggi famiglia e scuola, avendo adottato procedimenti ispirati a scarso rigore, non allenano il ragazzo a quella che poi sarà la sua sfida nell’istituto di formazione, orbene, un esercito avversario, una folla intenzionata a ricercare lo scontro fisico, i personaggi esagitati, o decisi a delinquere coi quali ci si confronta nel servizio di pronto intervento, non avranno analoga comprensione, e ci daranno dentro come facevano un tempo. Cercando di farlo fuori o picchiando come fabbri.
Se non si testa questa sua capacità di tenuta, se non lo si sottopone a verifica pratica – fermo restando che mai si potrà riprodurre lo stress da combattimento o da vero scontro fisico – si rischia di mettere sulla strada un ragazzo che si farà del male da solo, o lo farà agli altri. Ovvio che il limite di tale addestramento sia costituito da una miscellanea fra decenza, decoro, assenza di crudeltà gratuita, violenza fisica: guai a quell’istruttore che vi dovesse far ricorso.

Ma deve essere chiaro che, nell’impiego operativo, al nostro giovanotto, seppur supportato da uno o più colleghi esperti, l’avversario non praticherà alcuno sconto di stress, e i limiti succitati li violerà con una certa facilità, perché nel confronto l’importante è vincere.
Non si insegna a pilotare un jet col solo simulatore e non si può addestrare un soldato o un operatore di polizia soltanto coi video-games. C’è un sottile diaframma che va varcato, seppure con attenzione e riguardo per l’incolumità. Se è ingiusto che l’istruttore tenga in rigida posizione di attenti l’allievo per un quarto d’ora, o che gli gridi in faccia in stile “Full Metal Jacket”, è altrettanto ingiusto che il manifestante ti sputi, insulti o lanci pietre, o che la persona da arrestare cerchi di accoltellarti o scalciarti. Eppure il nostro ragazzo dovrà andare avanti, operare secondo legge, e proteggere il cittadino. Non deve fuggire e non deve scatenare la furia sanguinaria di novello Berserker.
C’è chi scrive per teorizzare più penetranti procedure di selezione, ma si dimentica che lo sconvolgimento interiore che spinge al suicidio non è riproducibile, come non lo è lo stress dello scontro – sul campo di battaglia, in piazza, per strada – che proverà un giorno il nostro allievo. La cosa più simile che si può ricreare è lo stress da rigore disciplinare, quello che può sembrar dire “Devi fare così perché l’ho detto io e non si discute, e basta!”.

Nei lunghi anni di formazione ho avuto di questi superiori alle scuole, ho subìto quelle che mi son sembrate ingiustizie, qualche volta ho imparato cosa NON fare mai a un dipendente. Ma ho appreso che erano servite a qualcosa. Anche saper sopportare è utile.
Per questo posso solo dire, per lunga milizia, che non si riuscirà mai a prevedere tutti i suicidi.
Che se si vuole un equilibrato uomo in uniforme lo si dovrà sperimentare, verificandone la tenuta.
Che ogni eccesso e carenza di chi è preposto a selezione, addestramento e comando vada sanzionata duramente.
Che non sia ispirato ad onestà intellettuale chi malignamente scrive affinché si possa intravedere sadismo delle gerarchie, perché di larghissima massima (non è elegante l’espressione, ma dà l’idea) non c’è.
Come ho sofferto per ogni episodio vissuto, continueranno a soffrire coloro che avranno responsabilità formative e di comando. Si deve sperare di ridurre l’incidenza di questa piaga, di eliminarla anche, perché sempre al meglio si deve tendere, consapevoli di una realtà che sarà di massima differente dai nostri sogni.


gen Carmelo Burgio
 
  


 
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