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''Un Italiano sulle barricate di Kabul''
Intervista con l'ambasciatore Stefano Pontecorvo, Senior Civilian Representative della Nato in Afghanistan
13-11-2021 - L’ultimo volo italiano da Kabul, il 27 Agosto scorso, ha segnato la conclusione dell’operazione Aquila Omnia, messa in atto il 13 agosto dalla Difesa italiana, con la quale son stati condotti in salvo in Italia 5.011 persone, di cui 4.890 cittadini afghani, tra di loro 1.301 donne e 1.453 bambini, effettuando in quindici giorni 87 voli.
E' certo un grande numero di persone messe in sicurezza; però ancora dispiace e rattrista il non aver potuto ancora “salvare” tutti i cittadini afghani che in qualche modo hanno collaborato con l’Italia nei venti anni di “missione di pace” in Afghanistan e che ancora ogni giorni ci inviano messaggi ed e-mail con richiesta di aiuto. Nel corso dell’operazione, importante contributo all'operazione è stato quello dell’ambasciatore Stefano Pontecorvo, Senior Civilian Representative della Nato in Afghanistan, che per due settimane ha contribuito al successo dell'operazione.
Egli ha offerto un grande esempio di “Italiano sulle barricate afghane”, per la sua attiva e operativa presenza a Kabul, nell’enorme sforzo di portar via il maggior numero possibile di persone in attesa disperata di salire sui velivoli della salvezza.
Di questa sua forte esperienza abbiamo parlato con lui.

Ambasciatore, lei che ha coordinato le operazioni all'aeroporto Hamid Karzai di Kabul per la Nato è davvero il testimone più significativo per rappresentare quella che è stata la tragedia degli ultimi giorni dell’uscita della NATO dall’Afghanistan. Può raccontarci cosa provava in quei momenti e quali forze e in quanto tempo è riuscito a mettere in azione?
In quei momenti lo sforzo era tutto volto a massimizzare il risultato. Sapevo di avere poco tempo a disposizione rispetto alle esigenze reali e che il crollo di Stato e Governo afghani avrebbero reso la situazione più complicata. Ciò che poi è successo, con l’alto numero di afghani che si è riversato in aeroporto, impedendoci di lavorare ai ritmi che avevamo previsto.
Le forze in campo in aeroporto erano molte e variegate. Innanzitutto, vi era un contingente turco composto di circa 600 unità integrate da un ulteriore contingente di 120 unità azere, che avevano la responsabilità della protezione dell’aeroporto per conto della NATO, che gestiva lo scalo attraverso il mio ufficio. Gli americani hanno poi fatto affluire circa 6000 truppe a protezione ulteriore dello scalo, la cui situazione di sicurezza si era deteriorata tra la fine di luglio e l’inizio di agosto, e per assistere nell’evacuazione del personale afghano che aveva collaborato o era vicino agli americani. A queste truppe sono da aggiungere circa 900 militari britannici. Questi erano i contingenti maggiori, deputati sia a proteggere lo scalo che ad assistere il transito degli evacuandi. In aggiunta, ciascun Paese che aveva collaboratori afghani da evacuare da Kabul ha fatto affluire contingenti nazionali più limitati che avevano il compito precipuo di far entrare i cittadini afghani in aeroporto sulla base di liste predisposte in anticipo, compiere le operazioni di identificazione e di “screening” di sicurezza e farli salire sui propri aerei per il trasporto nel Paese di destinazione.


Durante le concitate operazioni di salvataggio, come agivano i talebani nell’impedire che cittadini afghani salissero sui velivoli? Lei si sentiva in pericolo?
I talebani, una volta impadronitisi della città, hanno assunto anche la responsabilità della sicurezza dello scalo. Il loro operato, limitato dallo scarso numero di combattenti che avevano rispetto alle esigenze, è stato particolarmente utile nella parte civile dell’aeroporto, la cui sicurezza era stata in mano alle truppe afghane dissoltesi anche in aeroporto. In linea generale, dopo l’invasione della pista del 16 agosto, essi hanno impedito ai locali di entrare in aeroporto e salire sui velivoli dalla parte civile dello scalo, che sarebbe altrimenti rimasto sguarnito. Nella parte militare dell’aeroporto i talebani hanno invece avuto un compito limitato, sia per il numero di persone che si sono accalcate attorno alle mura e ai cancelli, che non erano in grado di controllare, sia per il fatto che con il passare dei giorni erano le truppe anglo americane ad assicurare sicurezza e flusso degli evacuandi. Non vi sono state azioni specifiche dei talebani volte ad impedire a chi aveva diritto ad entrare nello scalo, sempre che ci riuscisse.
Il pericolo era un elemento costante della permanenza in aeroporto. Il sistema di sicurezza era crollato e nella Capitale operavano una serie di gruppi terroristici che non necessariamente rispondevano ai talebani o andavano d’accordo con loro. Come si è visto dall’attentato suicida del 26 agosto, compiuto da ISIS-K, un attentato era sempre possibile e occorreva pertanto essere vigili. Avevo anche il timore che, sui grandi numeri, potesse infiltrarsi in aeroporto qualche malintenzionato che mettesse a rischio l’operazione.

//www.cybernaua.it/news/newsdett.php?idnews=9513
L’operazione “Aquila Omnia” è ritenuta un successo italiano per aver portato in salvo circa 5mila Afghani. Ne siamo tutti orgogliosi. Si poteva fare di più?
Date le circostanze non credo. L’Italia ha agito molto bene con le forze che aveva ed avendo già estratto tutti coloro che stavano collaborando direttamente con il nostro contingente militare ad Herat, i quali sono partiti per l’Italia assieme alle famiglie prima del ritiro finale dei nostri militari. Le condizioni sia nel Paese che attorno all’aeroporto non hanno consentito ad un numero maggiore di cittadini afghani di arrivare vicino o dentro lo scalo. L’Italia aveva messo in piedi, grazie ad una attenta pianificazione fatta dal Comando Operativo di Vertice Interforze (COVI) diretto dal generale Portolano, una operazione integrata Esercito-Aeronautica che aveva a disposizione tutti i mezzi ed il personale necessario ad affrontare le esigenze in aeroporto. Quella operazione è stata perfettamente eseguita, non lasciando indietro nessuno di quelli che erano riusciti ad arrivare nei pressi dell’aeroporto e portando via il più alto numero di afghani tra i Paesi UE”.


Per le sue attività di consigliere diplomatico del ministro della Difesa italiano, Lei ha potuto testimoniare vari periodi della partecipazione dell’Italia alla missione in Afghanistan, con ministri Di Paola, Mauro e Pinotti. Può darci una sua valutazione su quanto può essere ritenuto un successo italiano nei riguardi della popolazione afghana?
 “Sembra fuori luogo parlare di successi nell’ambito di una operazione che è finita come è finita. Ciononostante, sono parecchi i successi da registrare e da ascrivere alla presenza italiana, in particolare ad Herat, dove nel corso degli anni della nostra presenza quella provincia ha raggiunto livelli di benessere e di progresso sociale tra i più elevati in Afghanistan. Ciò è stato possibile grazie all’alto livello di sicurezza che la nostra presenza militare ha assicurato nella provincia, tra le più sicure dell’Afghanistan pur avendo una composizione etnica eterogenea. I progetti della nostra cooperazione sono anch’essi di grande momento e di impatto diretto sulla vita della popolazione afghana, ed alcuni di essi continueranno a produrre i propri effetti benefici anche nelle nuove condizioni”.

Gli Italiani hanno seguìto tramite nostri report le attività di “sgombero” delle basi in cui operava il nostro contingente in Afghanistan. Secondo Lei, è giustificata la nostra sensazione che gli USA più che lasciare il Paese, ne siano fuggiti? 
No. Una volta deciso il ritiro era bene per le truppe della coalizione lasciare il Paese al più presto per motivi di sicurezza. Qualsiasi militare potrà confermare che la fase del ritiro è quella più delicata sul piano della incolumità del personale e della sicurezza della forza. Occorreva pertanto rimuovere le truppe da teatro nel minor lasso di tempo possibile. Quanto alle scene viste in aeroporto, quelle sono frutto di una situazione imprevista, nel quale il crollo del Governo seguito alla fuga del Presidente ha visto liquefarsi la struttura di sicurezza che avrebbe dovuto agire da misura di contenimento della folla, la quale ha impedito un ordinato svolgersi della evacuazione”.

Come vede il futuro dell’Afghanistan?
Complicato purtroppo. Il crollo della struttura statuale impedisce ai talebani una ordinata gestione del Paese, sia a livello centrale che a quello locale. Ma soprattutto il venir meno dei contributi dei donatori, che assicuravano circa il 75% delle entrate dello Stato afghano, mette in ginocchio sul piano finanziario Paese e popolazione, colpita anche dalla diminuzione fisica degli scambi commerciali e pertanto a corto di molti beni essenziali. Non credo si debba guardare oltre questo inverno. La comunità internazionale deve concentrarsi su un tempestivo e massiccio invio di aiuti umanitari che assistano la popolazione a superare i prossimi sei mesi. Per alcuni è già tardi”.








Maria Clara Mussa
 
  


 
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