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Donetsk, Ucraina, si combatte e si lavora
Centro minerario importante, a fianco del villaggio di Spartak, ove ha sede il comando avanzato con il ''battaglione Vostok''
fotografie di: Luca Pistone

15-07-2015 - Donetsk, la quarta città più importante dell'Ucraina.
E' il simbolo dell'industria e del lavoro sin dalla sua fondazione, nel 1869, quando il gallese John Hughes, conscio dell'enorme potenzialità della regione, ricchissima di giacimenti carboniferi, costruì la prima acciaieria vicino Olexandrivka.
Un detto scherzoso a Donetsk recita: “i minatori non piangono lacrime dai loro occhi, ma piccoli pezzetti di carbone” e forse è vero, visto il lavoro massacrante che fanno nelle miniere, tra le più profonde del mondo. Chi lavora sottoterra è facilmente riconoscibile dagli occhi, contornati dal nero dalla polvere di carbone che, anche sfregandoli con forza sotto la doccia, lasciano una sottile linea di colore, quasi fosse un kajal indiano usato per bellezza. Donetsk vive di questo, di carbone e di acciaio, tanto che nel 1924, la città venne chiamata Stalino, non in onore di Stalin ma proprio per rendere merito all'acciao, in russo 'stal'.
Area strategica, centro minerario ed industriale tra i più importanti dell'ex Unione Sovietica, fulcro di uno dei primi esperimenti dell'ideologia comunista. Nel 1918 i bolscevichi formarono la 'Repubblica Sovietica del Donetsk-Krivoy Rog. Durò poco, dal 12 di febbraio al 20 di marzo, poco più di un mese, e non venne riconosciuta da nessuno, nemmeno dalla Russia bolscevica. Una situazione che oggi ritorna, in una sorta di limbo storico dove Mosca ha evitato di riconoscere la Repubblica Popolare di Donetsk, a differenza di quanto avvenuto in Crimea.
Nella piazza centrale di Donetsk, Piazza Lenin, dalla pianta squadrata ed enorme e dagli spazi aperti, svetta, insieme a una gigantesca statua del politico e rivoluzionario russo, una colonna in marmo recante una sua citazione: “Donbass, non una semplice regione ma una regione senza la quale la costruzione del comunismo sarebbe rimasta soltanto una pia speranza". A differenza di altre regioni dell'Ucraina, dove i simboli del comunismo sono stati sradicati, la regione del Donbass porta ancora i segni di un attaccamento ad una estetica socialista, frutto forse di una mitizzazione di un periodo di stabilità e benessere più che di una reale volontà di ritorno ad una società di tipo comunista. Anche perchè la vicina Russia non ha più nessuna di queste caratteristiche.
Il 31 di agosto del 1935 Aleksej Grigor'evič Stachanov, che lavorava in una delle miniere del bacino di Donetsk, raccolse 102 tonnellate di carbone in cinque ore e quarantacinque minuti. Da allora quella divenne la 'Giornata del minatore di carbone'. Sugli edifici degli impianti minerari, nella parte più alta, ancora oggi sono presenti grandi stelle rosse in acciaio e vetro. Venivano accese o spente in base ai livelli di produzione delle miniere. Le più meritevoli, potevano essere così riconosciute per quelle grandi, imponenti strutture luminose che si stagliavano nella notte.
Le stelle rosse sono spesso anche presenti sulle giacche delle uniformi e sulle bustine militari.
Nel quartiere di Petrovsky, Elena, comandante di un gruppo mortai del 'Battaglione Vostok', la esibisce con fierezza sul suo copricapo.
“La portava mia nonna, quando combatteva contro i nazisti, ora la porto io. Era conservata gelosamente in un cassetto, qui nella sua casa. Quando hanno iniziato a bombardare il quartiere ho preso mia nonna e l'ho portata in una zona più sicura. Le ho detto: nonna, questa la prendo io. Ora lei è morta e io continuo a combattere la nostra guerra. Oggi è diverso, siamo fratelli contro fratelli. Ma non abbiamo iniziato noi”.
Il checkpoint dove si trova Elena è poco distante dalla stazione degli autobus. La parte di quartiere che si trova oltre lo sbarramento militare è ormai quasi disabitato. I colpi di mortaio cadono tutti i giorni, la linea di combattimento è a soli pochi chilometri da qui.
Dalle prime ore della sera fino al mattino, le strade si svuotano e le posizioni dei governativi incominciano a martellare la zona. Diverse granate arrivano anche oltre il checkpoint.
Poco distante si trova Marinka, villaggio sotto il controllo delle truppe di Kiev. Questa è una guerra fatta di bunker e trincee, come quelle di una volta, dove ci si confronta quotidianamente sfidandosi a colpi di mortaio e cecchini. Ne sa qualcosa Roman, detto il 'georgiano'.
Roman è un mastino di guerra.
Medaglie al valore ne ha già collezionate diverse. Una foto lo ritrae insieme a veterani dell'Armata Rossa talmente carichi di onorificenze da far quasi sparire la giacca dell'uniforme. “Alla loro età ne avrò ancora di più”, scherza, mentre fa vedere sul suo dispositivo portatile una cerimonia dove il presidente Aleksandr Zakharchenko in persona gli appunta una medaglia al petto. Ex militare professionista durante l'Unione Sovietica, dice che questa non è la sua prima guerra civile. La Georgia è stata la sua prima palestra di combattimento. Tutta la famiglia di Roman è impegnata in prima linea. La moglie e il figlio sono con lui fin dall'inizio della guerra. Il ragazzo, che ha sui diciotto anni, viene redarguito dal padre appena arriviamo alla sede di comando avanzato nel villaggio di Spartak, poco distante da ciò che rimane dell'aeroporto internazionale. “Perché non hai l'elmetto? - gli urla Roman - corri dentro a prenderlo”.
Le linee nemiche in questa zona sono tenute dal Battaglione Azov.
Nell'area non è difficile imbattersi in granate di mortaio inesplose e conficcate nel terreno. Vengono anche utilizzati lanciarazzi BM-21 e colpi di mortaio superiori ai 100mm, in evidente violazione degli Protocollo di Minsk, che prevede la rimozione di tutte le armi pesanti a 15 chilometri dietro la linea di contatto, da ogni parte del conflitto, per creare una zona smilitarizzata di circa trenta km. Violazioni quindi, che avvengono da ambo i lati. Mentre camminiamo lungo una delle strade del villaggio, tra le case distrutte e i rottami di un carrarmato, Roman si ferma in un punto preciso e indica una piccola buca nel terreno. Poi tira fuori un fazzolettino bianco di tela: “ecco, le vedi queste? Sono schegge che ho tirato fuori dalla faccia di uno dei miei ragazzi. Proprio qui è caduta la granata. E' successo l'altroieri. Abbiamo avuto un morto e due feriti”.
La frontline di Spartak è una delle più calde. I colpi di mortaio cadono a distanza di pochi secondi l'uno dall'altro, interrotti saltuariamente dal crepitio di alcune mitragliatrici e da singoli secchi spari dei cecchini. Qui come in altre zone, è il Battaglione Vostok che tiene duro in trincea.
Ma la struttura militare della Repubblica Popolare di Donetsk ha anche altre valide formazioni militari che insieme non possono essere definite come 'esercito' per via degli accordi di Minsk. Il nome ufficiale è 'infatti Milizia del popolo', sottoposto al controllo del Ministero della Difesa. Non è chiaro quanti siano i corpi di armata, forse due. Ogni corpo è formato da diverse brigate. Ogni brigata include due o tre battaglioni di fanteria motorizzata, compagnie di carrarmati, una o due divisioni di artiglieria.
Gruppi a parte, sempre sotto la Difesa, sono il Battaglione Sparta e il Battaglione Somalia, guidati dal russo 'Motorola' e dal comandante 'Givi'. Poi c'è la Guardia Repubblicana, controllata direttamente da Zacharchenko, una sorta di 'forza di elite' con equipaggiamento superiore. Sotto il controllo del Ministero degli Interni invece si trovano diverse strutture militari chiamate 'truppe interne'. L'influenza estetica dell'ex Unione Sovietica è mitigata da una forte aderenza al cristianesimo ortodosso del Patriarcato di Mosca, tanto che alcuni battaglioni si richiamavano direttamente alla fede, come il 'Russian Orthodox Army'.
Figure religiose sono presenti dappertutto e si riallacciano anche ad una visione zarista della 'Santa Madre Russia', protettrice delle genti slave. Il nastro di San Giorgio ad esempio, è il simbolo di continuità che parte dal periodo imperiale fino ad arrivare alla presidenza Putin.
Un simbolo che racchiude oggi il variegato mondo dell'estremismo nazionalista russo e coadiuva forze anche distanti politicamente e culturalmente tra di loro.
Cristiano Tinazzi


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